In economia “valore” è un concetto non un obiettivo e la confusione non è innocua sull’andamento attuale delle borse.
Dalla sua fondazione a disciplina, risalente alla seconda metà del ‘700, l’economia ha senso se considera il valore pilastro sui cui si reggono teoria e pratica. Gli economisti classici da Smith a Marx, ma anche quelli venuti dopo in varie scuole e generazioni, non hanno mai trattato il valore come fine dell’economia, tanto meno come fine della vita.
Ci dobbiamo porre una domanda: a che servono l’università, l’accademia, le cittadelle degli studi, i pensatoi statali e privati? Si dovrebbe ritenere, per quel che costano alla collettività, che servano a diffondere corretti insegnamenti e, così, allenare i giovani a pensare con la propria testa senza confondere la causa con l’effetto, il fine con il mezzo, l’analisi critica con la mera imitazione causa dell’«effetto gregge», lasciando a pubblicitari e imbonitori barattare intrugli per medicamenti. Purtroppo, non è sempre così e nella storia economica si hanno casi di pericolosi rovesciamenti, come è accaduto nel 1992 con la teoria della “creazione di valore”, riciclata dall’America e subito lanciata da nostre università, che ne hanno fatto il leit-motiv di corsi, conferenze, dichiarazioni e interviste in tema di economia aziendale, addirittura sostituendo al sostantivo “creazione” il verbo “creare”, come comandamento di un nuovo attivismo dell’homo oeconomicus. Si lessero interviste a giornali, in cui, nella foga della novità, autorevoli docenti usarono persino la locuzione “tensione morale”, perché non si mettesse in dubbio che “creare valore” era un imperativo kantiano! Non mancarono voci isolate che tentarono di rilevare che si trattava di un riciclaggio del classico concetto che le cose hanno un valore collegato al flusso dei redditi futuri e, soprattutto, che abbinare il termine “creazione” a quello di “valore” non solo comportava una confusione tra causa (reddito) ed effetto (valore), ma, considerando proprio la presenza di quel verbo transitivo, elevava un concetto collegato a una misurazione (valore) addirittura a “fine della vita”. Purtroppo, quelle voci rimasero isolate e non trovarono spazi in giornali o riviste, i cui comitati scientifici erano dominati dai divulgatori del nuovo verbo. Che l’accademia avesse mandato in vacanza il signor cervello, venendo meno alla sua funzione di voce critica di ogni tipo di ideologia, lo constatiamo oggi con le altalene delle borse, che, fra tante cause, possono anche annoverare l’equivoco sulla “creazione di valore”. Si constata che “creare valore” significa aumentare il valore dell’azienda e delle azioni, quotate in borsa o no, fenomeno positivo, in sé equivalente a quello di incrementare i flussi di reddito, se non fossero intervenute tre componenti facilmente prevedibili sin dall’origine:
– che il termine nascondeva una dilagante e pericolosa finanziarizzazione dell’economia;
– che, di conseguenza, i tempi della borsa sarebbero diventati sempre più brevi, mentre i tempi dell’economia non possono essere accorciati se non nel lungo termine;
– che i manager avrebbero applicato a loro beneficio i risultati di incrementi di valore, comunque ottenuti. Se un manager viene remunerato in parte rilevante al risultato e questo è definito nel “valore” e se gli viene garantita una lauta “buona uscita”, è elementare considerare il rischio di un flusso di guadagni periodici prima e una scorpacciata di indennità al momento dell’uscita, comunque e quando avvenga.
In questi ultimi mesi negli Stati Uniti hanno constatato ciò che si sapeva da tempo: che pur di fare guadagni i manager sono pronti a violare i principi fondamentali della corretta ragioneria, della buona fede e della lealtà verso l’impresa e i suoi azionisti. E gli italiani, che la ragioneria l’hanno inventata tribolando per secoli sui libri mastro, si sono lasciati avvincere dalle ipocrisie anglosassoni e puritane (a parole) del “quadro fedele”, del “true and fair”, dei principi contabili internazionali, del “more and more“. Questo non è pessimismo personale, perché per constatare che altri se ne rendono conto basta leggere le interviste rilasciate in questi giorni dall’economista canadese Mintzberg, autorità internazionale nella disciplina dell’organizzazione aziendale.
Negli Stati Uniti si è mosso persino il presidente. In Italia si continua a parlare di “etica”, dimenticando che questa è facilmente riducibile a una specie di “manuale delle giovani marmotte” dei nipoti di Paperino. Abbiamo bisogno di morale, che è una, e non di “etiche regionali” (quella dell’avvocato, del commercialista, del medico, del giornalista, dell’imprenditore e così via), a meno che si dica che le singole etiche sono un surrogato necessario, perché la morale non c’è più.
Sullo sfondo resta una preoccupazione. Che ne è di tutti quei giovani laureati gasati alla “teoria della creazione di valore”, che ora sono in carriera? Li rimandiamo nelle cittadelle degli studi a fare master di morale? Non si può: i padri li mandarono e le università li restituirono e allora valgono quei versi della poesia Strapaese: “Non quando li prende/ ma quando li rende/Parigi ci offende“. Grazie Parigi!
Articolo pubblicato su “ItaliaOggi” del 24 agosto 2002.