I filosofi del diritto e gli storici del diritto penale hanno ben chiara la differenza tra crimine e delitto, ancora esistente nelle legislazioni che mantengono la tripartizione: crimine, delitto, contravvenzione, derivata dal Codice Francese del 1810. Giudici e avvocati italiani non la possono considerare, poiché il nostro ordinamento, già dal Codice Zanardelli, ha adottato la bipartizione in sole: contravvenzioni e delitti. Forse ha pesato un fine di semplicità, ma la distinzione tra crimine e delitto sembra opportuna, talché il linguaggio giuridico anche italiano finisce per tenerne conto. Non è solo questione di gravità, ma di intenzionalità. Infatti, nel diritto penale ha fondamentale importanza il concetto di “intenzione”. Si pensi, per esempio, all’art. 42 del codice penale, che pone la coscienza e la volontà come condizione per la comminazione della pena e all’art. 43, che definisce il dolo. Ora, prescindendo dal diritto naturale e rimanendo nel positivo, l’intenzione di agire in contrasto con l’ordinamento è una causa che genera effetti sempre negativi. Lo sforzo del giudice consiste nel valutare la negatività degli effetti e di raccordarli alla causa, la cui negatività è l’altra condizione per stabilire la colpa. In questo senso l’intenzione, in quanto causa negativa, è sempre una immoralità (morale negativa o morale negata). Nel crimine, che sarebbe il più basso grado di negatività, la morale è negativa per definizione. In altri termini, si può dire che non è nemmeno ipotizzabile l’esistenza di un crimine causato da una qualsiasi morale, che è assente per definizione; cioè non mette conto nemmeno di parlarne. Seguo, in questo, la teoria del Manzini, non condivisa da Antolisei, come ben si legge nel § 3 dell’Introduzione del suo “Manuale di diritto penale” (pag. 10 della XV edizione), che tratta dei “Rapporti fra il diritto penale e la morale”. Ma, il pragmatico Antolisei avverte che espellere la morale dalla “teoria del reato” sarebbe errore non meno grave di estendere il legame a ogni tipo di reato. La contrapposizione tra le due scuole mi fa pensare che non esisterebbe, se il nostro sistema avesse adottato la tripartizione, perché sulla esistenza di una negazione intenzionale di ogni morale, almeno nel caso del crimine Antolisei e Manzini potrebbero convenire. Se questo è il quadro, ben si comprende il senso dell’affermazione di quel giudice napoletano che, a commento della vendetta della camorra eseguita dopo poche ore l’uccisione della piccola Valentina, ha ricordato ai giornalisti, che ponevano il problema dell’esistenza di una specie di codice d’onore di quella criminalità super organizzata intollerante per il coinvolgimento di innocenti, che la camorra non può avere alcuna morale. Quel giudice ha ragione, ma il concetto è più ampio: non solo la camorra, ma nessun tipo di organizzazione criminale può avere alla sua origine una qualsiasi “morale”, perché è immorale per definizione. Così come non può avere spiegazione alcuna l’ammissione di colpevolezza di uno degli scampati (per il momento) alla vendetta, “per errore di persona”; come se il crimine verso la persona “giusta” potesse mai avere una giustificazione. Dobbiamo constatare un’ennesima volta l’ipocrisia di questa società, cresciuta, stordita e deviata da troppe chiacchiere di giornalisti e sociologi, che, pur di giustificare la loro presenza (direi: la loro esistenza), sono pronti, in ogni momento e per ogni evento, a trovare spiegazioni e giustificazioni. Così la chiarezza dei concetti fondamentali, su cui si deve reggere una società civile, va alla malora. A voler spiegare tutto si finisce per non spiegare più nulla.