Sommario

 
Introduzione
 
1.     Parte prima
1.1.   Origine di ius                                                                    
1.2.   Persona e maschera
13.    Giustizia
1.3.1. Domanda di giustizia
1.3.2. Significato di giustizia
1.3.3. Risposta di giustizia
1.3.4. Recupero di valori
 

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INTRODUZIONE

 
Il grado di elaborazione del concetto di “valore”, a cui è pervenuta la filosofia nelle sue varie partizioni: filosofia morale, filosofia politica, epistemologia, economia politica [1], sociologia, è tale da evitarci discussioni di carattere terminologico. Parlare di valore significa, allora, parlare di “crisi del valore”, che ne presuppone la conoscenza e ne pretende la catarsi. Non tanto di “valore” si deve trattare, ma di “valori”, poiché il rischio della ipostatizzazione e del dogmatismo del singolare, è da evitare già nelle premesse. Quindi, “crisi di valori” e, inoltre, non di tutti i valori, ché sarebbe progetto troppo ambizioso e farebbe ricadere nel singolare e nella sua paventata contraddizione
Si vuol trattare, invece, solo di due valori, che si definirebbero sociali, se il termine non recasse il rischio di richiamare la sociologia, disciplina che sta passando un momento poco fortunato; ma valori che l’uomo, il cittadino, l’homo oeconomicus sente in quanto partecipe della vita di una collettività, retta da norme e da rapporti: valore di giustizia e valore economico.
Il comune denominatore di questi due valori non può essere solo nell’aggettivo “sociali”; sarebbe troppo poco o una inutile forzatura. È la comune origine, che ne giustifica l’abbinamento. Nell’antichità e ancora nella scolastica tomistica, il pretium non era disgiunto da iustum, anzi un prezzo “doveva” essere giusto. In ricordo di questa radice, anziché scrivere una conclusione, verrà dedicato un capitolo alla storia del processo di valutazione economica, di cui si anticipa qui il concetto riassuntivo: res tantum valet quantum vendi potest, che racchiude il senso della relatività di tutti gli sforzi delle teorie dell’estimo. Parafrasando quel concetto economico, si potrebbe anche dire che iustitia est quae datur. Sono due giudizi-constatazione che possono assumere un comune significato di inutilità di ogni ricerca, poiché tanto le cose saranno sempre quelle che sono. Non sarebbe una tautologia, ma una visione realistica dei fatti umani, che noi accettiamo, perché è saggezza di empirista. Ma non sarebbe nemmeno un abbandono al determinismo della storia, a uno storicismo materialista. L’uomo non è solo faber; è anche viator. L’orgoglio prometeico o faustiano si rivela spesso una presunzione, che si ritorce contro l’uomo. Tuttavia, l’uomo, nella sua libertà, che si manifesta nel suo esistere convinto e operativo, è veramente il propositore e l’organizzatore del tempo futuro. È così che, preparandola, accade la storia ed è per questo motivo che, nonostante un giustificabile scetticismo sulla sua utilità, sono scritte queste riflessioni, in omaggio a chi dà senza chiedersi se il pretium sarà iustum, se la sua attesa di giustizia sarà soddisfatta. Nell’uomo occidentale, si vorrebbe dire con orgoglio “nell’uomo europeo”, si è realizzata la nota fondamentale del cristianesimo: la storia è fatta di tempo diacronico, non circolare, e il tempo è crescita, perché è cammino verso la salvezza, che sta in alto. Il cristiano è pur sempre un monaco guerriero, anche quando veste il saio di san Francesco o dirige un’impresa. Il cristiano è un Ulisse convertito. Si ricorre a due immagini per rappresentarlo degnamente nel suo destino esistenziale, ma anche oltre l’esistenza: l’Ulisse di Dante nel XXVI canto dell’Inferno e la stampa di Dürer Il cavaliere, la morte e il diavolo. Il cavaliere di Dürer sa che la morte e il diavolo sono i suoi compagni di viaggio, ma il suo sguardo è fisso in avanti: fissa il suo destino, cioè la sua storia, come la scriverà la punta della sua spada.
Max Weber ha ben sintetizzato questo modus vivendi, che è un “modo di essere”, nell’aforisma: “non accadrebbe il possibile, se non ci fosse qualcuno che ogni giorno tenta l’impossibile”.

 

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1. PARTE PRIMA

 
Il neoilluminismo può essere considerato il pensiero vincente della nostra epoca, nonostante i temperamenti dello scetticismo prodotto dagli avvertimenti che vengono da filosofie critiche della scienza, giudicata non depositaria di un sapere assoluto e sistematico. Si osserva uno strano circuito: il neoilluminismo è alla base dell’arroganza del sapere scientifico, ma quel sapere fa i conti ogni giorno con i cambiamenti che la scienza stessa produce; da qui uno stato di incertezza e una instabilità del sapere scientifico, che deve contare più sul domani, sulla speranza, sul programma, anziché sulla reiterazione dell’oggi. Il sapere scientifico, anche quando è orgogliosamente prometeico o faustiano, scopre ogni giorno la sua relatività e ciò serve a contenere l’arroganza del neoilluminismo. Il circuito non diventa virtuoso, ma almeno lascia l’uomo in una posizione che non cancella l’autocritica.
Se questo è il quadro attuale, ci si deve chiedere come si colloca in esso il diritto e in questo come si colloca la giustizia, che racchiude in sé: una domanda (dal cittadino fruitore) e l’ambizione di un’offerta (dal giudice). Una specie di processo di nidificazione. Se si considera  la posizione dualistica tradizionale di diritto naturale e di diritto positivo, dobbiamo escludere il primo, non perché privo di importanza, ma perché si colloca e agisce a un diverso livello: quello propedeutico. Limitandoci, per necessità di coerenza, al secondo e prima di affrontare l’analisi del processo nidificato, dobbiamo rispondere alla domanda: la metafora serve al diritto? Che può anche porsi, in termini diversi però con analogie interessanti: il diritto può essere fantasia? In un saggio stimolante, Vincenzo Pannuccio ha dato risposta positiva alla seconda domanda, come ben enuncia il titolo del suo saggio La fantasia nel diritto, risposta che si può senz’altro condividere, perché, senza fantasia, l’uomo si riduce ad automa, che è poi lo stadio temuto con terrore da chi vede gli effetti di una dilagante tecnologia. Fantasia, quindi, anche nelle scienze giuridiche, affinché non muoiano: la forza propositiva del legislatore, la capacità analitica dell’interprete e la sensibilità dell’applicatore: il giudice. Fantasia non vuol però dire ‘essere fantasiosi’, che è altra cosa. Possiamo valutare il peso della fantasia pensando agli effetti della sua assenza: il legislatore non sarebbe in grado di proporre leggi adeguate a regolare l’oggi, ma anche ad anticipare il domani; il giurista non avrebbe stimoli per analisi comparative e filologiche, che è poi un processo genealogico indispensabile all’esegesi; il giudice non sarebbe in grado di collegare, con adeguata flessibilità, la rigidità della norma astratta all’evoluzione in atto nella società.
L’analisi di quei rapporti ci suggerisce di esaminare tre figure: a) l’origine del termine ius (aspetto filologico); b) l’analisi della ‘maschera’ (aspetto metaforico); c) la domanda di giustizia (aspetto sociologico)
 
 
 
 

1.1  ORIGINE DI IUS

 
 
La lingua non è solo il genio di un popolo, ma è la sua stessa storia e le parole che noi usiamo rivelano, talvolta, a una indagine etimologica, significati che l’uso quotidiano rende meccanici, mentre sono densi di valori, a cui guardare non con l’occhio dell’archeologo davanti a reperti, ma con la commozione che spinge a recuperi, come antidoti contro il vuoto del nichilismo stimolato dal dilagare della tecnica. Non nostalgie o impossibili ricerche di tempi perduti; piuttosto rivisitazioni con lo scopo di dare significato a un presente, orfano di valori, ma anche bisognoso di spiegazioni. Da qui la domanda: che cosa c’è dietro la parola jus?
In passato e per secoli, la società si è retta su un asse del tipo: divinità-potere umano-diritto. La dinamica era all’incirca questa: la divinità, anche nelle religioni antropologiche di tipo ellenico, era considerata la fonte, l’origine, l’inizio, l’Uno o l’Intero. Il potere si identificava nel soggetto detentore, che lo esercitava facendolo derivare dalla divinità, per imprimere il carisma, che ne legittimava l’esercizio sui subordinati. Si arrivò, nell’impero romano [2], a deificare il principe, per renderne intangibile l’auctoritas [3]. Tutte le monarchie assolute si giustificarono invocando la derivazione divina del potere [4], anche se il regicidio veniva ammesso e giustificato non come violenza usata alla divinità fonte del potere, ma perché il principe aveva trasgredito le regole della derivazione dalla divinità [5]. Il diritto, come strumento per l’esercizio concreto del potere, era inteso come ponte tra la divinità e il popolo per il tramite del potere in posizione sciamanica. Il senso di questo rapporto lo si comprende risalendo alla etimologia del termine ius, che, presso i romani assunse il suo significato più concreto, almeno inteso come ius civilis. Ma al concetto di ius si può pervenire solo passando da quello di “padre”. Nel concetto biblico “Dio” è insieme “padre” e “giustizia”. I tre concetti si associano fino a confondersi, non nel senso che giustizia e padre siano equivalenti di Dio, ma ne sono appellativi e ne definiscono due qualità [6].  Questa interpretazione del rapporto Dio Padre-uomo in chiave di giustizia porta a ricercare l’etimologia e quindi il significato primigenio del termine latino ius, che, proprio per la sua origine religiosa non certo biblica, ma parallela, come a dimostrare un’esigenza dell’uomo non esclusiva di un’epoca o di una religione, sembra rimandare al genitivo latino IOVIS. Invero le fonti si limitano al nominativo IUPPITER, derivato dal greco ZEUS PATER, a sua volta dall’indoeuropeo, come si evince dalla radice sanscrita pa, che ha significato di “proteggere” ed è etimo di “padre”, ma anche del verbo “potere”. Per la struttura stessa della lingua latina, il genitivo avrebbe potuto essere diverso da IOVIS. Ma, allora, perché IOVIS? Quale collegamento, se esiste, tra ius e Iovis? Perché ius non potrebbe essere la trasposizione al nominativo del genitivo Iovis, oppure una sostantivazione con termine autonomo di una qualità “di Giove”? Se così fosse, si avrebbe conferma della diretta derivazione di ius, inteso come norma regolatrice di rapporti tra uomini, dal piano religioso, innanzi tutto riferito a una qualità di Giove e poi al rapporto tra Giove e gli uomini, secondo un itinerario di continuo abbassamento fino alla completa secolarizzazione di uno ius, che ha perso ogni contatto con la sua origine religiosa, per radicarsi unicamente nei rapporti umani di natura sociale. Se questa ipotesi risultasse fondata, si potrebbe collocare il Dio ebraico dell’Alleanza al primo livello: quello del rapporto tra Dio e il suo Popolo.
Scrive Biondo Biondi, eminente studioso di diritto romano: « La etimologia della parola ius non può dirsi accertata. Il Vico [7] l’ha messa in relazione con Iovis, seguito da qualche filologo moderno; ius si identificherebbe quindi con Giove; ed in questa etimologia si avrebbe conferma delle origini religiose del diritto, in quanto ius si verrebbe ad identificare con la stessa divinità. A favore di questa etimologia sta certo il termine “iovestod”, che si trova nella stele arcaica del Foro romano come equivalente a iustum. Altri [8], invece, qualificando assurda questa etimologia, mette in relazione ius con “yos” che vorrebbe dire salvezza; quindi ius sarebbe la formula della salvezza religiosa o purificazione. Altri infine fa derivare ius da iungo. è certo che l’antico ius ha base e carattere religioso. » [9]
Conferma la conclusione anche Giacomo Devoto, che scrive: « dal latino ius, iuris, che hanno conservato intatta la classe sacerdotale (indo-iranica e latina), e da cui si è svolta la nozione di diritto. Forma originaria è YEUS alternante con YEWES. La forma latina che risale a quest’ultima è ‘ioves’, come mostrano il derivato arcaico ‘iovesto’, classico ‘iustus’ e il verbo denominale arcaico ‘iovesat’, classico ‘iurat’». [10]
L’ipotesi del Vico, seppur non filologo ma filosofo della ragione storica [11], è però più affascinante, anche perché il collegamento con la Bibbia è completo. Il popolo ebraico è anche l’inventore delle “Tavole della legge” di derivazione direttamente divina. Si noti che Mosè riceve la Legge, come Maometto riceve il Corano da Allah. Mosè è sì un profeta, e – si sa – il profeta ebraico opera in collegamento con Dio in termini interpretativi, mentre Maometto è solo la mano che scrive sotto dettatura di Allah; ma quando si tratta delle “Tavole della Legge” Mosè è nello stesso rapporto con Dio, come lo è il Maometto che scrive il Corano; o meglio il Maometto che scrive il Corano si colloca nella stesso rapporto con il Dio di Mosè.
Né si può trascurare quel che scrive L.R.  Palmer: « Anche ius è stato messo in relazione con il sanscrito yoh ‘salve!’ e con l’avest. yaoz-dadaiti ‘esso rende puro’; alla forma madre ricostruita, yevos o yovos, è attribuito il significato originario di “formula religiosa che ha forza di legge”. Di qui iudex colui che pronuncia la formula sacra, e ius iurare ‘pronunciare la formula sacra’. In latino, naturalmente, questo significato è divenuto profano; così Servio, commentando le Georgiche di Virgilio, dice: “ad religionem fas, ad hominem iura pertinet”.» [12]
Conferme si trovano anche nel, Dictionnaire etymologique de la langue latine di A. Ernout-A. Meillet, voce ius: « (antico ious. La parola ha dovuto significare all’origine “formula religiosa che ha forza di legge”… Il valore religioso antico traspariva ancora nelle espressioni iustae nuptiae, iusta funera. Nondimeno, il rapporto semantico tra ius e iuro non è più sentito in latino: ius non ha più che il senso “laico” di “diritto, giustizia” (per opposizione a fas), ius civile, ius gentium… ad religionem fas, ad homines jura pertinet (alla religione si addicono i doveri, agli uomini i diritti)… Tuttavia per Cicerone, la conoscenza dello ius era ancora un obbligo dei pontefici. »
Come si nota, il denominatore comune di tutti gli autori citati, è l’origine religiosa del termine ius.
Il collegamento ne apre un altro, ancora più importante e affascinante. Il percorso, dall’attributo di Giove al diritto secolarizzato, come si identifica nell’itinerario dei significati di ius, rimanda a quello del logos, come lo si intuisce nell’apertura del Vangelo di Giovanni: “E il Verbo si fece carne ed abitò tra noi…”, che è poi un parallelo, seppur a diverso livello, del rapporto tra mito e logos, ove il logos evangelico, diversamente dalla secolarizzazione dei romani, identifica un’umanizzazione dei concetti riservati alla divinità.
Rimanendo nel campo del rapporto mito-logos nell’ottica secolarizzata, è interessante richiamare la domanda se la filosofia, intesa come logos nasca dal mito o dal pensiero [13] . La tesi di Heidegger, che sostiene la provenienza dal pensiero, sembra contraddetta dalle ultime analisi di Ruggiu e Reale, che in una recente traduzione del poema di Parmenide, dimostrano che la concezione parmenidea dell’essere non riconduce all’Uno ma all’Intero, cosicché la parola del  muthos e quella del logos non si collocherebbero in due momenti storici successivi e in un rapporto di derivazione della seconda dalla prima, ma permarrebbero in un continuo intreccio, generando una filosofia che è mito-logia. » Se così è, a maggior ragione si dovrebbe sostenere la sopravvivenza o la necessità della sopravvivenza del significato mitico-religioso del termine ius. Il filosofo Galimberti ci ricorda che nell’analisi etimologica dei termini. “Mito significa: parola che dice. Dire, per i greci, significa manifestare, far apparire ciò che nell’apparizione appare, ciò che è nel suo evento epifanico. Logos significa la stessa cosa…Credere, come comunemente si crede, che il logos derivi dal mito, distinguendosi da quest’ultimo per la sua forma razionale, significa non intendere il senso custodito dalla parola e quindi, ancora una volta, trascurare il senso che l’essere affida alla parola. Nella ricerca di questo senso si impegna l’indagine heideggeriana sulla filosofia greca ».
Però, noi oggi constatiamo che dello ius si sono perse le tracce. La parola, così carica di significati, si è ridotta a prefisso di altri termini, che il meccanicismo della quotidianità svilisce nel banale. Si pensi a “giurisprudenza”. Noi usiamo il termine “diritto”, che viene dal tardo latino directum, come opposto di tortum. Non è il massimo della nobiltà. Ma sarebbe già un progresso, visto il livello a cui si è oggi caduti, ricordare almeno il significato di “non storto”. Certo, la secolarizzazione di un concetto porta sempre con sé anche la deresponsabilizzazione. Un giudice, che abbia continuamente presente la funzione di sacerdote di una materia, che ha una provenienza divina, avrebbe forse maggior “prudenza”. Potrebbe anche essere tentato di risalire troppo in alto, verso l’origine, sentirsi la divinità e fare lui le leggi, di cui, invece, è solo custode. Ma, questo accade ancor più frequentemente in sistemi ove la radice divina è completamente perduta persino nella memoria. Il giudice-legislatore è il rischio peggiore che possa correre un qualsiasi sistema. Montesquieu direbbe che si è infranto l’ésprit des lois. Questo accade oggi, con crescente frequenza, perché molti giudici hanno perso i freni inibitori, che derivavano in passato dalla consapevolezza di una origine divina, seppur lontanissima e mitica, della funzione, e dalla contrapposizione di altri poteri dello stato. Svanito il senso religioso e ridotti i contropoteri politico-istituzionali, l’equilibrio si è infranto. Il diritto, spesso è un tortum, che non è solo storto, ma diventa ” un torto”.
 
 

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1.2  persona e maschera
 
Il cod. civ. non dà una definizione di “persona” e, allora, bisogna rifarsi al vocabolario: «individuo umano in grado di godere diritti.» Ma si deve ricordare che “persona” viene dall’etrusco phersu=maschera e trasferito nella lingua latina con persona=la maschera usata dagli attori nella commedia. Quel significato etimologico è ancora attuale, perché la persona è la maschera dell’uomo, ciò che appare rispetto all’interiorità, che è l’uomo vero e ignudo. L’opera teatrale di Pirandello è stata intitolata “Maschere nude”. E che cosa sono i “personaggi” della fiction se non maschere? Sono le persone che consentono all’uomo di apparire, pur rimanendo nascosto dietro le maschere. Per capire il concetto bisognerebbe rifarsi alla filosofia dell’esistenzialismo del Novecento. L’uomo è l’essere che esiste, perché appare, ex-siste, “esce (ex) dal suo stare (siste)” per apparire. Ciò che appare è solo la sua maschera, cioè la “persona”. Ma se i romani attribuivano a “persona” il significato teatrale, come chiamavano il soggetto di diritto? Lo chiamavano homo, come si evince da questo principio fondamentale: hominum causa omne ius constitutum est, cioè l’intera organizzazione giuridica è destinata alla persona umana. Solo più tardi il termine persona  si estese dal teatro al mondo del diritto, che è ancora teatro, come dice Shakespeare e come ognuno constata osservando un processo. Ma i romani usavano anche il termine caput.
Notiamo anche che la definizione del vocabolario parla di “individuo umano”. Ricordiamo che “individuo” viene dal latino in-dividuus=non divisibile, tutt’uno, unico e poiché questo si può dire anche di un qualsiasi animale è necessario l’aggettivo “umano”. Ma se è unico (Giovanni Paolo II ha più volte affermato che ogni individuo umano è un fenomeno irripetibile) e non divisibile, vuol dire che è caratterizzato da particolarità, talché in quelle particolarità debba essere distinto dagli altri. Cioè non può essere confuso, poiché diversamente non potrebbe godere diritti. Se quel signore quarantenne con i capelli rossi, alto un metro e settanta, con i baffi ecc., che si chiama Pietro Bianchi e ha il codice fiscale ecc. si confondesse con Mario Rossi, come potrebbe godere diritti uti singuli? E anche se gode gli stessi diritti che può godere Mario Rossi, ciononostante quelli che gli spettano, spettano a lui in quanto è quel tale individuo. Ma se è vero che “individuo” vuol dire non divisibile, il significato non è atomistico, cioè non significa che è solo. Se il nostro individuo fosse solo su un’isola deserta, che bisogno avrebbe mai di disporre di diritti? Chi gli potrebbe mai contestare di essere il signore dell’isola? Robinson Crusoe è homo oeconomicus, anche se è solo, perché deve realizzare un adeguamento di mezzi a bisogni, ma non è in-dividuus in senso giuridico.  Un uomo solo su un’isola, che se ne fa di un codice civile, di un codice penale? Allora concludiamo con due osservazioni: a) il diritto sorge quando l’individuo vive con altri individui; il diritto è lo strumento che rende possibile la societas; senza diritto non c’è polis; b) ma senza polis non c’è nemmeno l’individuo; perché l’individuo, l’indiviso, è una realtà dialettica: può esistere, se esiste una comunità, cioè una pluralità. Ora, noi possiamo constatare che tra individuo e collettività, pluralità, comunità che dir si voglia, “deve” esistere uno scambio continuo, un rapporto dinamico, senza il quale la societas non sorge e non vive.
Ma, allora, chiediamoci perché individuo è persona, cioè maschera. Nel teatro antico, la maschera è intera; l’attore non recita con mezza maschera; la maschera è in-dividua, in-divisa: così l’individuo. Questo discorso sembra un gioco di parole; invece è il fondamento della filosofia del diritto e della sociologia. Sul rapporto dialettico individuo-società, pur spiegato in queste poche parole, sta il significato del detto di Aristotele: “l’uomo è un animale socievole” e di quello del poeta inglese John Donne “nessun uomo è un’isola”. La “maschera” cela, perché non sostituisce, ma nasconde e nascondendo rinvia. Che c’è dietro la maschera? C’è un che di indeterminto, di incerto e di mistero[14]; c’è il profondo. Ma il profondo è sempre e solo dell’uomo. Viene in mente un icastico giudizio di Nietzsche: « Tutto ciò che è profondo ama la maschera; le cose più profonde hanno per l’immagine e l’allegoria perfino dell’odio. » [15] Nietzsche sembra esprimere un dualismo amore-odio. L’uomo, il profondo, si cela dietro la maschera, perché è lo strumento in grado di celare, ma nel contempo la odia, perché lo sostituisce. Sembra il rapporto uomo-ius: il diritto è una necessità, perché, senza, è il caos. Non è questa la radice del Leviatano di Hobbes?
Il concetto di “persona=maschera” è ancor più significativo per le società e gli enti collettivi in genere. Il diritto ha creato, con una geniale fictio iuris, la società di capitali (s.p.a., s.r.l, s.a.p.a.), che, però, non riuscirebbe ad agire nel mondo dei rapporti (diritti e obbligazioni), se non vi fosse un “qualcuno” che gli presta la sua materialità. Quel “qualcuno” è l’ “amministratore”. Ora si comprende, perché è opportuno insistere sul concetto di “maschera”. Gli amministratori sono le “maschere” della società di capitali. Senza di esse non esisterebbe quel fenomeno o, quanto meno, la società di capitali non potrebbe operare concretamente nel mondo dei rapporti giuridici. Solo la finzione, che si sostanzia nella maschera, rende viva la società ed è chiaro che delle due teorie: quella della finzione e quella realistica, la prima è l’unica che riesce a spiegare perché quando la società deve rispondere di danni deve mandare avanti la sua “maschera” e perché sull’aspetto penale risponde solo la maschera, tant’è che secondo la Cassazione SS.UU., 14.12.1994, n. 10.680, la società non potrebbe nemmeno accollarsi le spese legali per la difesa dell’amministratore nel processo penale e nemmeno quando questo sia assolto. La metafora della maschera è fondamentale per capire la teoria dell’amministratore “testa di legno”, cioè un caso di “maschera che si nasconde dietro un’altra maschera” [16].
 

1.3  GIUSTIZIA
 
 
1.3.1  DOMANDA DI GIUSTIZIA
 
è opinione condivisa che le istituzioni sociali si giustifichino solo se finalizzate al servizio dell’uomo, non inteso in un astratto significato antropologico, ma in quanto cives o homo oeconomicus, categoria, quest’ultima, da ritenere già compresa nell’altra. I cittadini, intesi come comunità – termine che è un genus, rispetto a popolo, nazione, stato – sentono più o meno intensamente bisogni, che li spingono a fare domande e, dal come le istituzioni sociali rispondono, si ha soddisfazione o insoddisfazione rispetto all’attesa. L’insoddisfazione può derivare:
a)    da inadeguatezza dello schema astratto dell’istituzione, perché storicamente superato o troppo grezzo;
b)   da eccessività o egoismo della domanda in rapporto alle concrete possibilità dell’organizzazione dell’istituzione finalizzata alla risposta;
c)    da incapacità o abulia o inerzia degli uomini preposti a realizzare i fini dell’istituzione.
In questo quadro sembra corretto porre il rapporto domanda-risposta di istruzione, sanità, giustizia, che in questi tempi presenta crescenti divaricazioni. Sicuramente coesistono le tre cause e la prima, più che una crisi della singola istituzione, è crisi dell’organizzazione politico-giuridica, da cui promana. è crisi dell’organizzazione statuale e dell’interpretazione, che alla sua forma danno le forze politiche, ormai preoccupate più della conquista e del mantenimento del potere che del compito di soddisfare adeguatamente le domande dei cittadini. Se si considera che le forze politiche, nelle società cosiddette democratiche o pseudo-democratiche o non completamente tiranniche, sono pur sempre espressione dei cittadini, la crisi dello stato è in realtà crisi della nazione. Come dire che la colpa è di tutti o, quanto meno, che non sarebbe giusto attribuirla a una sola causa. Le nostre società occidentali sono figlie, da un secolo e mezzo, di Carlo Marx. Con il crollo del muro di Berlino, il marxismo ha celebrato la sua vittoria, anzi il suo trionfo [17], anche prescindendo da ripetuti ritorni di fiamma. Il marxismo è rimasto sepolto sotto le macerie perché non era più necessario in quanto tale, essendo già riuscito a trasferirsi nella cosiddetta democrazia capitalistica, secondo un percorso e uno sviluppo che Marx non aveva previsti [18]. Sotto il muro di Berlino è rimasto sepolto il marxismo, che, per via rivoluzionaria, aveva generato il socialismo reale, ma prima ancora del crollo, dalle ceneri era già sorta, quale araba fenice, una pseudo-democrazia, in cui domina la figura dello “stato”, come soggetto demiurgico, accentratore e tirannico, che attribuendosi il diritto e la funzione di fare tutto, concludendo poco e male, ha realizzato l’effetto di deresponsabilizzare l’individuo. La caduta dei valori è, in realtà, causata soprattutto dalla ipostatizzazione del concetto di “stato”, che, da invenzione meramente giuridico-amministrativa, ha preteso di sostituire la nazione, concetto, invece, ricco di valori morali, civili e sociali. Lo stato ha preteso di essere un valore e non ha ottenuto altro effetto di quello di realizzare un obiettivo marxiano e, quindi, di conseguire il vero trionfo del marxismo, oltre le stesse finalità di Marx, che al vertice della società pensava di porre non lo stato ma la società civile [19].
Non è un caso che i partiti liberali, gli antagonisti storici e ideologici del marxismo, siano rimasti sepolti sotto lo stesso muro e insieme il tradizionale nemico. Anch’essi non erano più necessari, perché il miscuglio capitalismo-marxismo aveva ormai generato un neoliberismo o una cosiddetta socialdemocrazia, in cui le forze politiche operano senza più alcun fine rivoluzionario, in un tartufesco buonismo, che, talvolta, fa rimpiangere tempi di maggiori contrasti, però originati da interpretazioni di valori ritenuti degni di apprezzamento o di fede. Lo si vede nei programmi elettorali e nei finti bipolarismi. Tutti promettono di impegnarsi più o meno per gli stessi obiettivi, nella sottesa certezza della loro irrealizzabilità, perché la sproporzione tra mezzi e fini diventa sempre più ampia. Da qui l’insoddisfazione crescente, che nessuna deformazione dei mass media, più o meno abilmente gestiti, riesce a colmare. Ne sono prova l’allontanamento dei cittadini dalla politica e il disprezzo generalizzato verso i cacciatori del consenso, che producono poi il fenomeno di un impoverimento del senso della solidarietà e un ritiro del singolo in sé stesso, in un crescente clima di indifferenza sociale e, insieme, di distacco dalla classe politica, non più intesa come promanazione dal popolo, ma incombente sovrastruttura. La conclusione è un crescente e dilagante scetticismo, che non è frutto di relativismo politico o di qualunquismo, ma di una sfiducia irrazionale verso le istituzioni. Caduta dei valori e conseguente nichilismo ne sono prove convincenti. I filosofi, condividendo in genere che l’origine del fenomeno sia proprio la caduta dei valori, danno spiegazioni diverse e soprattutto periodizzazioni variegate, che vanno dalla filosofia di Platone, a duemila anni dopo con Cartesio [20]. Dubito che il filosofo sia il più adatto alle datazioni. Il filosofo è un individualista per professione, quindi per necessità, ed è portato a vedere e interpretare i fenomeni dal suo solo punto di vista. Il filosofo può rappresentare solo sé stesso; raramente riesce a percepire il moto del popolo e a interpretarlo. Il filosofo può essere tale solo se inattuale, perché nella inattualità riesce a trasferirsi fuori del tempo e così capirlo e con lui capire gli uomini che del tempo sono abitatori. Il filosofo non può essere il tramite; solo il politico, o meglio l’animale politico, può essere il medium con la massa, coglierne gli orientamenti e gli umori, farsene interprete e rappresentarli nell’azione politica.
La datazione dell’origine della caduta dei valori può essere proposta con l’avvento della rivoluzione industriale e con quella consequenziale, che José Ortega y Gasset chiamò “la ribellione delle masse”. Se si pone l’Europa, dal 1750 a tutto l’Ottocento, al centro del mondo, è  sufficiente un dato: dal 1800 al 1914 la popolazione del vecchio continente passa da 180 milioni a 460 milioni di abitanti e nel 1950 a 550 milioni. [21] L’esplosione demografica non ha seguito la crescita dei mezzi rispetto ai bisogni, ma l’ha preceduta. è stata il carburante e, nella creazione del moto, anche il fumo della combustione. Ha costituito, per le due guerre mondiali del XX secolo, la carne da cannone e, con l’emigrazione, il tessuto umano degli Stati Uniti d’America. Se la metà del Settecento aveva visto la rivoluzione della borghesia, l’Ottocento e il Novecento conosceranno la rivoluzione del proletariato, nel senso etimologico del termine: famiglie con prole, come è evidente nella constatazione demografica. Forse questa esplosione ha suggerito a A.J. Carlson l’affermazione: “se ci moltiplichiamo come conigli, alla lunga dovremo morire come conigli” [22]. Ma gli uomini, se decidono di proliferare come conigli, non ne accettano la fine. Rivoluzionari e dittatori sanno che la mobilitazione e la strumentalizzazione delle masse può portare alla loro ribellione. Organizzare la ribellione è l’arte, l’intuizione, l’azione del politico carismatico. Quei dati demografici spiegano più cose di tanti trattati di filosofia, di storia, di sociologia, soprattutto se si considera che la crescita della cultura non è andata in parallelo con la demografia. Le masse che crescevano avevano come unico riferimento culturale quello della civiltà religiosa-contadina. Ma una civiltà non si sostituisce con un’altra in breve tempo, soprattutto se l’ “altra” ancora non c’è. Una civiltà è tale quando è dei molti, non delle élite. Che importanza può avere se pochi borghesi discettano di cultura in salotti o in parchi di stabilimenti termali? Oltre tutto, una cultura che si affida ai pochi non può dare che in proporzione. Si provi a immaginare una qualsiasi percentuale anche esagerata di famiglie borghesi colte nel 1914 su quei 460 milioni di abitanti, con una popolazione ancora dipendente per il 70-80% dall’agricoltura. Si consideri, di conseguenza, quante energie intellettuali e quante possibilità di crescita rimaste sepolte allo stadio di mera potenzialità in quelle masse condannate a carburante e carne da macello. Ma i tempi della civiltà e, quindi, della storia, non coincidono con quelli delle aspirazioni, anche sante o mistiche, dei rivoluzionari. Ben lo sapeva Napoleone, che davanti all’ecatombe di uomini dopo una cruenta battaglia, cinicamente affermava che sarebbe bastata una notte d’amore a Parigi per porvi rimedio [23]. Ma un conto è generare e altro conto è crescere. Il Settecento aveva cancellato l’aristocrazia, l’Ottocento e il Novecento hanno visto il nascere e il compimento dell’integrazione del proletariato nella borghesia, cinghia di trasmissione tra la plebe e l’aristocrazia prima e provetta di emulsione poi. A mano a mano, che dagli strati bassi della società emergevano uomini dotati per integrare e rinsanguare la classe borghese, la cultura di cui erano portatori aveva subito il condizionamento della conquista del “posto al sole”. Nessun uomo è mai eguale a prima dopo una battaglia, individuale o collettiva che sia. Se si pianta un albero di pianura a duemila metri e sopravvive, l’ambientamento può avvenire solo con cambiamento permanente di alcuni caratteri (dimensione, colorazione, durata). L’uomo non è poi tanto diverso e il cambiamento di ambiente e di tradizioni porta a mutazioni culturali talvolta radicali e contrastanti. Il figlio del contadino, che si faceva ecclesiastico, razionalizzava la sua cultura di origine religiosa, tipica della civiltà contadina. Ma, se riusciva a diventare medico o ingegnere, doveva fare i conti con una nuova cultura razionalistica o positivistica o scientista, che spesso riusciva a cancellare o, nella migliore delle ipotesi a modificare, l’elemento religioso dell’origine.
Questi fenomeni, pur nei loro contenuti chiaramente rivoluzionari, possono non avere manifestazioni sociali particolarmente evidenti. Le chiese saranno meno affollate. Alla religione si sostituirà un suo surrogato, ma il problema non riguarda ancora le masse. Finché solo pochi figli delle masse riescono a evadere o a emergere, si può constatare un lento cambio di cultura, ma pur sempre cultura. Il dramma si ha quando i nuovi arrivati dagli strati bassi, i nuovi ingegneri, i nuovi medici, i nuovi avvocati, si mettono a far politica e a strumentalizzare gli strati sociali da cui provengono. Privi loro stessi di una cultura consolidata e metabolizzata, che ancora non perviene a una adeguata saggezza, si fanno o credono di farsi interpreti dei bisogni dei “fratelli” e, anziché elevarli verso quella stessa cultura, che loro hanno faticosamente conquistato, ma non ancora metabolizzato, abbassano questa a quelli. Il risultato è il nascere di una pseudo-cultura, che crea aspettative superiori a capacità, meriti e disponibilità materiali. Si pensi, per assurdo, che una legge faziosa conceda a tutti coloro che hanno frequentato la scuola media inferiore di fregiarsi del titolo di avvocato e di praticare quella professione. Un po’ come Carlo V, che ad Alghero proclamò i sardi affamati: todos caballeros. Affamati rimasero e, se vollero comportarsi da cavalieri, finirono per esserne caricature. Ora, se i nostri avvocati “per decreto” pretendessero tutti di vivere sul foro, alimenterebbero una domanda, a cui la società non è in grado di dare una risposta. è un esempio volutamente assurdo, ma può rendere l’idea di una sollecitazione ad aspettative destinate alla delusione, che è la caratteristica delle società europee di quest’epoca. è un punto di arrivo o di assestamento, la cui partenza risale a più secoli fa. Il fenomeno è stato esasperato da due guerre mondiali combattute sul suolo europeo. In quelle due fornaci, che a ben vedere è poi una sola, si sono bruciate le ultime certezze di una civiltà, che aveva suoi valori consolidati per decantazione e affinamento nei secoli. Gli uomini che sopravvissero non hanno potuto non riversare sulle generazioni successive il vuoto e lo scetticismo della testimonianza di quell’ecatombe sconvolgente: l’ “inutile strage”, come ebbe a definirla Papa Benedetto XV. I superstiti erano portatori della convinzione che sopravvivere e vivere al meglio è lo scopo, è il fine fino alla fine. Anche questo ha causato un aumento delle aspettative. Intanto, la rivoluzione industriale, che, diversamente dalla politica [24], è fenomeno permanente, ha prodotto le sue conseguenze tecnologiche: un incremento dei beni materiali, delle sue comodità, ma anche nuove povertà, nuove ingiustizie, nuovi rapporti tra l’uomo e i suoi bisogni e tra questi e i mezzi a disposizione.
La caduta dei valori o è l’effetto di queste cause o si iscrive in questo quadro, che ha come sbocco un nichilismo, che, forse, non ha i caratteri assoluti descritti da Nietzsche e da Severino, ma è pur sempre un pericoloso vuoto, che crea deresponsabilizzazione, fuga dalla realtà, disadattamenti sociali, rifiuti di adeguamenti all’evoluzione – di cui l’uomo è a un tempo padre e figlio – emarginazioni e reazioni, sfiducia, asocialità, perdita di senso della solidarietà, disprezzo degli altri e affermazione del proprio particolare interesse. Lo scadimento di tutto un mondo di valori ha avuto – e in modo crescente ha – la sua più significativa manifestazione nell’economicismo della vita sociale, che ha dilatato i rapporti commerciali e le funzioni di produzione e di distribuzione, trasferendo le rivoluzioni dalle piazze ai tribunali. Oggi si chiede, anzi si pretende, che le rivoluzioni le facciano i giudici. Lieti della funzione, essi hanno risposto con la promessa di quel giudice milanese: “rivolteremo la società come un calzino”. Forse erano meno pericolose le rivoluzioni di piazza! Ma il popolo, nel cui nome sono scritte le sentenze che rivoltano i calzini, non se ne accorge, anzi si bea della scelta, applaude, come i sanculotti di Parigi davanti ad una ghigliottina lorda di sangue. Il popolo è rimasto lo stesso e ama il  genere grand-guignol. Di un giudice, che conosce più le manette che il codice, fa un eroe, perché anche nell’epoca della secolarizzazione il popolo ha bisogno di miti, segno che il vuoto religioso va comunque riempito con qualcosa anche di valore negativo. Il nichilismo non può mai essere assoluto, forse perché la mente umana non riesce a pensare veramente il Nulla.
A prescindere da queste valutazioni, da lasciare a quei pochi sociologi veramente attrezzati per dare risposte, si deve constatare che la domanda di giustizia è cresciuta a dismisura. Ma qui si pone la constatazione fondamentale: chi fa domanda di giustizia? Innanzi tutto: chi ha bisogno immediato di giustizia, ma, in modo più o meno indiretto, anche tutti gli altri. La giustizia è un bisogno collettivo fra i più sentiti. Tutti i cittadini sono interessati a una buona giustizia non perché tutti possiamo averne bisogno. Questo accadrebbe ancor più nella sanità, perché tutti corriamo il rischio di malattie e infermità. Ma, mentre la sanità è sentita come un servizio e così la scuola e la difesa, che potrebbero essere affidate anche a privati o a mercenari, la giustizia, per la sua stessa origine collegata o identificata con il potere politico, è sentita come un’aspettativa, che riguarda tutti i membri della comunità in quanto tali. è forse la sedimentazione ormai inconscia della aspettativa che il re, in quanto titolare del potere politico di derivazione divina o per acclamante elezione dei membri della comunità, amministrasse la giustizia. Capo-potere-giustizia è un asse che risale a epoche remote e di cui è sopravvissuto, come un reperto archeologico, il potere di grazia del capo dello stato. Condannare o assolvere può essere ordinaria amministrazione e applicazione delle leggi. Ma graziare è espressione di un potere che va oltre, forse anche contro, la legge. Però l’uso è così raro, che si riduce a simbolo, forse perché il simbolo per mantenere il suo significato non deve svilirsi in ripetitività. è il “capo” che, in nome di Dio o del popolo o di entrambi, pronunzia una specie di ego te absolvo, in apprezzamento di un senso di giustizia, che non abbisogna delle motivazioni del giudice, ma perché il capo supremo è supremo giudice e, talvolta, è anche “buono”. Cosicché la domanda di giustizia è la più generale e quella che più direttamente pare mettere alla prova la ragione stessa dell’esistenza dello stato.
Come ha risposto lo stato, cioè il soggetto del punto a) all’incremento della domanda di giustizia e di un certo tipo di giustizia descritta nel punto b)? Ha aumentato la massa dei giudici. Come li ha reclutati? Nella società prima descritta.
Si fanno subito due osservazioni:

  • lo stato della giustizia, cioè la qualità della risposta, è senz’altro insoddisfacente, almeno stando alle opinioni raccolte nei più vari ambienti e anche in quello degli stessi giudici, molti dei quali sono i primi ad auspicare un miglioramento della qualità delle loro prestazioni professionali. Vi è malessere in un giudice, come in qualsiasi altro professionista, che si trova inadeguato al compito assunto. Anche chi, come un giudice, si sente parte di una corporazione forte, non può non avvertire di essere un granello di sabbia in una montagna. La massificazione della società, di cui scriveva Ortega y Gasset, non ha certo lasciato fuori gli operatori di giustizia;
  • ipotizzare un’aristocrazia dei magistrati, pensando, anche solo in astratto, che il servizio fornito possa essere migliore è un po’ come pensare con Platone che il miglior governante sia il filosofo: un sicuro disastro. Il buon giudice non è un “unto del Signore” e nemmeno uno che conosca ogni piega delle leggi. Deve essere, invece, un uomo di mondo, nel senso che conosce il mondo che gli sta attorno e, per saper resistere alla continua influenza, può giudicarne con serenità fatti e misfatti quotidiani. Infatti, essere un uomo di mondo [25] significa conoscere il “mondo” in cui si vive e quindi saperlo interpretare. Ma conoscere e interpretare il mondo significa “vivere il mondo” e vivere il mondo significa avere la capacità di una valutazione storicistica (cioè del momento storico) del mondo. Ma questo implica che il giudice debba vivere le ideologie del momento storico oppure che deve solo saperle interpretare standone al di fuori? è antropologicamente possibile tutto questo? Forse lo è per pochi. D’altra parte, come sarebbe possibile in una società connotata da disvalori, che i magistrati siano una categoria che ha conservato valori? Non sarebbero giudici fuori dal mondo? Se devono essere “nel mondo”, dobbiamo accettare che siano “uomini del mondo”, e, quindi, scontare il rischio di una giustizia orfana di valori. Ha ancora un senso richiamare l’esempio di Azdak o Sancio o Salomone? E se si potesse stabilire e provare che la caduta dei valori nel mondo occidentale coincide con l’esplosione della popolazione dopo l’avvio della rivoluzione industriale citata da Ortega y Gasset? E se esistesse un asse del tipo: rivoluzione industriale – esplosione demografica – nazionalismo – guerre mondiali – nichilismo consequenziale – appiattimento e caduta dei valori? Non sarebbe questo un quadro generale nel quale iscrivere anche i vari fenomeni di mala giustizia, mala sanità, mala scuola, mala economia, attuali? La lezione che Miguel de Cervantes ci offre con la figura del Sancio Panza, improvvisamente proiettato nella funzione di magistrato, è sublime non solo sul piano dell’arte, ma anche della saggezza del vivere. Il poeta ci dice che per essere un buon giudice non c’è bisogno di essere dei visionari colti come don Chisciotte e non è un caso che Cervantes, più volte provato dall’ingiustizia umana, abbia raffigurato nell’uomo semplice e incolto, colui che può dare la vera giustizia, come provano le sue sentenze. A ben vedere, la figura di Sancio è tutt’altro che umoristica. è tragica per Sancio, alla fine deriso, ma, più ancora, per chi lo ha irriso, perché lo perde e, con lui, la giustizia.

Quindi, si osserva che il punto c) (insoddisfazione nella risposta derivante da incapacità o abulia o inerzia degli uomini preposti a realizzare i fini dell’istituzione) non rappresenta un’affermazione, né un giudizio. Potrebbe anche rivelarsi una negazione, o, per rimanere in tema, un’assoluzione. Se usiamo lo schema del processo, la risposta è rimandata alla fine, a dopo la formula liturgica “P.Q.M.”.
 
 
1.3.2  significato di giustizia
 
Che cosa è “giustizia”? Bisogno morale? Bisogno pratico? Metafisica dell’essere? Un valore? Un istituto giuridico statuale? Un parto della ragione? Una condizione per realizzare la vita sociale? Un mero sentimento? Voltaire la mette su questo livello quando afferma che “il sentimento di giustizia è così universalmente connaturato all’umanità da sembrare indipendente da ogni legge, partito o religione”. Di Voltaire possiamo recepire la constatazione, peraltro ovvia, dell’universalità della giustizia, non certo la natura di “sentimento”. Se la giustizia diventa sentimento non è più giustizia, a meno che “sentimento” sia inteso non nel senso psicologico, ma nel senso di un “sentire” kantiano, che fa i conti con la ragione. Una caratteristica della giustizia dovrebbe essere la “ragionevolezza”, cioè una razionalità equilibrata, contemperata, forse anche esaltata, dal senso morale.
La comune etimologia di ius e iustitia non deve far confondere diritto e giustizia [26]. Definiti correttamente gli ambiti, resta però il fatto che la crisi dell’uno coincide, almeno temporalmente, con la crisi dell’altra. Una cattiva religione difficilmente ha ottimi sacerdoti.
Esaminiamo innanzi tutto la posizione di chi fa domanda di giustizia. è sempre attuale la speranza del mugnaio di Sans-Souci di trovare a Berlino un giudice capace di fare giustizia [27], che, taluno interpreta: ci sarà pure a Berlino un giudice in grado di darmi ragione [28]. La differenza tra “ottenere giustizia” e “ottenere ragione” è abissale, perché in mezzo c’è la morale. Abbiamo mai sentito di un avvocato che rifiuta una sentenza favorevole al proprio cliente, per il quale ha rappresentato ragioni negative? L’ipocrisia ha espresso le sue più tartufesche spiegazioni dietro lo schermo della deontologia: il professionista ha come primo dovere l’interesse del proprio cliente. L’utilità è elevata al livello, quando non al di sopra, della morale. A tal fine è stata elaborata la sottile distinzione dell’avvocato come nuncius anziché come procurator [29], o l’altra connessa: il professionista fa prestazioni di mezzo e non di risultato. Non che il principio sia immorale; basta rispettare il confine della onestà del proprio vivere, l’honeste vivere, di Ulpiano [30]. Vale allora la considerazione: l’avvocato si è comportato con deontologia (una specie di morale pratica regionale) e si è limitato a fare una domanda. La risposta è stata favorevole, oltre ogni aspettativa, e “a caval donato non si guarda in bocca”. è nota la risposta di Carnelutti alla domanda: “come fa a sostenere le ragioni di un incriminato che Lei sa colpevole?” La risposta è stata: “perché la mia funzione di avvocato è di instillare nel giudice il senso del dubbio di colpevolezza”. Per Carnelutti la giustizia, per essere tale, deve passare attraverso la sofferenza del dubbio. è una tesi indubbiamente elegante e, comunque, risponde a un criterio di organizzazione della società. è la stessa legge che impedisce lo svolgimento di un processo senza la presenza di un difensore abilitato. Ciò significa che a un avvocato non si può chiedere nemmeno che il suo senso morale gli impedisca di assumere la difesa di un cliente colpevole, così evitando in radice il problema di porre domande. Sarebbe come chiedere a un chirurgo di non fare interventi, quando vi è scarsa probabilità di sopravvivenza. Il problema è che la “verità” riferita a fatti umani è un concetto talmente relativo da lasciare sempre probabilità per il contrario. Il vero grande rischio non è nella domanda, ma è nella risposta, in quel “caval donato”. Cioè la giustizia donata, elargita per grazia o per incuria, per incapacità di distinguere il giusto dall’ingiusto, in quel todos caballeros, che applicato alla giustizia significa “tutti assolti”, a cui fa pericolosamente da contraltare l’ideologia del giudice alla Torquemada o alla “Tangentopoli” del “tutti colpevoli”, prima ancora del giudizio. Cose di tutti i giorni. Purtroppo.
 
 
1.3.3  RISPOSTA DI GIUSTIZIA
 
Esaminiamo allora la risposta di giustizia. Essa è, in concreto, una funzione di interpretazione su due livelli: quello astratto, riguardante la norma, e quello concreto, riguardante i fatti e gli atti umani, che sono la domanda del fruitore di giustizia. Questa domanda dovrebbe essere preceduta dalla simulazione della risposta. L’avvocato, a cui si rivolge il fruitore, dovrebbe simulare l’istruzione e la conclusione di un processo prima di avanzare la domanda formale al giudice. In effetti, il primo giudice dovrebbe essere l’avvocato, la cui funzione è anche quella di preparare le prove della commedia giudiziaria, che si svolgerà su quel palcoscenico che è il foro, l’aula di giustizia. Manca il regista, manca il pubblico e manca la parte che reciterà l’avversario. L’avvocato avveduto, simula le parti mancanti. è la commedia dell’arte. Il processo è solo una rappresentazione teatrale, comica e tragica al tempo stesso. Ma questo è della vita. Dice Shakespeare in “Come vi piace”: «Tutto il mondo è palcoscenico. » [31]
Viene consequenziale la domanda: chi vogliamo che sia il giudice? Vorremmo un Azdak, un Sancio Panza, un Salomone? O ci accontenteremmo di un “uomo di mondo” all’inglese! La risposta è pressoché impossibile, perché si frantuma in tanti identikit, pari al numero dei cittadini. Ognuno di noi, anche quando non vuole o non vorrebbe essere giudice, ha una sua idea di giustizia, che prescinde persino dal diritto e il giudice, che ognuno di noi si rappresenta, è quello che farebbe un certo tipo di giustizia. Non conta poi tanto se nel giudizio delle due madri a decidere sia Salomone o Azdak; importante è che sia in grado di  impartire la nostra soluzione, la nostra giustizia. Allora non ci interessano più nemmeno le motivazioni, perché la nostra giustizia è la giustizia e basta… è sicuramente giusta. La motivazione ci interessa, anzi la pretendiamo quando la giustizia è diversa da quella da noi ipotizzata. Si pensi ai processi che infiammano l’opinione pubblica divisa tra innocentisti e colpevolisti. Chi non segue il caso ed è indifferente non si pone problemi, ma quelli che si appassionano al caso, non scelgono la posizione innocentista o colpevolista “a caso”, perché ognuno di loro ha una propria motivazione. Interpellati, rispondono. “sono convinto sia innocente (colpevole) perché…” La motivazione interessa quando constatiamo che il giudice, quello vero, il preposto, dà una sentenza diversa. Allora vogliamo sapere perché, non tanto per constatare dove noi sbagliamo, ma dove ha sbagliato, a nostro avviso, il giudice. Questo accade in molti casi, perché la giustizia è anche qualcosa di istintivo, che non è meccanico. è forse una prova dell’origine dello ius. Qualcosa che sta dentro l’uomo, prima ancora che nelle sue leggi. Qualcosa che non potrà mai essere affidato a nessun computer, a nessuna “intelligenza artificiale”, perché l’uomo di mondo, tutto sommato, non è surrogabile.
Però, qui sta anche il punto di rottura tra una giustizia: regale, istintiva, arcaica, immotivata perché coperta dal velo del divino e una giustizia moderna, che ha come unico referente il “diritto”, ovviamente solo quello positivo, essendo quello naturale incorporato nella ragionevolezza, nella prudenza, nella saggezza del giudice. Questo tipo di giustizia sarebbe certo superiore alla prima, perché più garantista, più sicura, quindi più “giusta”. Non più la giustizia secondo il popolo, ma secondo la legge applicata in suo nome. Questa sarebbe una giustizia “buona”, diversa da quella impartita da un Giove irritabile o da un capo sanguinario.
Ma, a questo punto si apre il problema dello iustum rispetto al bonum. Dicevano i romani: id quod bonum et iustum est. Ma, dicevano bene? Il concetto di bonum non deve essere ricompreso in quello di iustum, affinché la giustizia sia veramente “giusta”? Si dice che il giudice abbia il dovere di ricercare il verum e che esorbita dal suo campo quando a esso sostituisce il bonum [32]. Sembrerebbe prudente che solo al giudice capace di donare una “giustizia carismatica” [33] sarebbe possibile giudicare secondo il bonum, mentre il giudice ordinario dovrebbe limitarsi a giudicare secondo il verum. Ma, fuori da casi leggendari assunti a simboli, può esistere, in concreto, una “giustizia carismatica” o, meglio: è conveniente che esista? Però, buono, bello e giusto potrebbero avere un’origine comune [34]. Già per Aristotele la giustizia è virtù intera, perché comprende tutte le altre, ed è perfetta perché può essere praticata in interiore, ma anche verso gli altri [35].
Se giustizia ha una origine collegata alla divinità, che cos’è il bisogno di giustizia, naturale nel cuore dell’uomo, se non bisogno di Dio? di fede in Dio? Secondo la teologia cattolica, il bonum può ritenersi assorbito nello iustum, perché Dio, pur essendo infinita misericordia, lascia sopravvivere l’Inferno; perché Dio è sì giustizia, in quanto emetterà un giudizio, ma sarà solo dichiarativo di una giustizia che l’uomo nella sua libertà si è già posto da sé. è il vecchio problema della giustificazione del male nel mondo, che pone l’uomo in grado di esercitare il diritto alla libertà morale di scegliersi il destino. La libertà è solo uno strumento per l’escatologia finale dell’uomo, che è la sua salvezza, anzi: la sua salvazione; ma una salvezza cercata dall’uomo, attraverso la sua libertà di non cercarla. Il giudizio è allora una semplice lettura che l’uomo fa nel giorno del giudizio di una sentenza che lui stesso ha scritto [36]. Bonum e iustum, così, coincidono, perché unificati dalla libertà.
Anche nel diritto romano esisteva coincidenza. Nell’età repubblicana il “giudicante” riceveva dal “giusdicente” (praetor urbanus) la potestà di condannare o di assolvere in relazione a ciò che egli ritenesse equo secondo il senso comune del momento storico. Ma, Cicerone, ripensando le concrete manifestazioni della bona fides, dell’aequum-iniquum e dello stesso ius, tramandate dai secoli precedenti, realizzò l’affinità tra: il bonum, l’aequitas, la iustitia [37]. Il fenomeno di identificazione è ritenuto una contaminazione risalente anche alla dottrina stoica rielaborata dalla filosofia romana [38]. Scrive Cicerone nel Libro I, § VII del De officiis: « De tribus autem reliquis latissime patet ea ratio, qua societas hominum inter ipsos et vitae quasi communitas continetur; cuius partes duae: iustitia, in qua virtutis splendor est maximus, ex qua boni viri nominantur…»
Però, l’identificazione del bene con il giusto è oggi operazione pericolosa. Il bene è ancora legato al concetto di libertà. Un bene compiuto senza libera scelta non è nemmeno meritorio. Peraltro il bene, da obiettivo individuale e personale, in molte sue manifestazioni ha oggi assunto, nelle società organizzate, un fine realizzato dalla collettività. L’individuo non sarebbe nemmeno in grado di realizzarlo da solo. Si pensi al concetto di “bene comune”, al cui raggiungimento l’individuo può dare contributi, ma la cui realizzazione concreta è fine della società nella sua organizzazione civile e politica.
Il giusto, per la cui realizzazione la giustizia è strumento, è invece legato al diritto. Anche affermare che è giusto ciò che è conforme al diritto, può essere pericoloso e comunque riduttivo, nel senso comune attuale, poiché “giusto” sembra aver preso le distanze dal “bene”. I due concetti si collocano in due sfere diverse.
La risposta alla domanda di giustizia è la conseguenza delle esposizioni precedenti. La innegabile crisi della giustizia non è solo una delusione sulla qualità della risposta, ma è anche l’assenza o il ritardo di risposta. Secondo alcune interpretazioni del fenomeno, si tratterebbe di un eccesso di domanda. La gente sarebbe diventata più litigiosa e, nella lite, più puntigliosa, pronta a sperimentare tutti i gradi di giudizio offerti dall’ordinamento. I pubblici poteri tentano di disincentivare la domanda, di ridurre il numero dei gradi, di sostituire i collegi con il giudice unico. Sono però correttivi destinati a peggiorare la qualità della giustizia. Invece, gli interventi dovrebbero essere diversi. Si dimentica che la litigiosità ha, tra le tante, anche due componenti in genere trascurate:

  • lo stato si è caricato di funzioni improprie, negli ultimi cinquant’anni di cosiddetta democrazia, interpretata secondo il concetto che il cittadino è in rapporto allo stato “dalla culla alla tomba”. Lo stato, dove arriva ed è fuori da funzioni istituzionali, crea solo condizioni di litigiosità. Semina privilegi e finisce per dividere la società, perché, moltiplicando le leggi e le regole in genere, fomenta il ricorso alla giustizia. Non si conoscono statistiche precise, ma si può pensare che il numero di cause di ogni tipo, generate più o meno direttamente dalla macchina statale, sia ingente;
  • la moltiplicazione di “lacci e lacciuoli” ingessa la società e fomenta la strumentalizzazione della giustizia.

Vi è, quindi, una componente anomala nella domanda di giustizia, che trascina anche un certo tipo di risposta.
 
1.3.4  RECUPERO DI VALORI
 
Forse non è corretto parlare di caduta di valori in senso assoluto. Il valore è in realtà un giudizio e il giudizio è pensiero. Potremmo fare a meno di valori, se potessimo fare a meno del pensiero. Senza valori non potremmo giudicare, senza giudizio non potremmo scegliere. L’uomo non ha di fronte a sé l’illimitato, ma il limitato e il contingente e, perciò, è costretto a scegliere. La più tragica, ma anche continua, delle scelte, quella che ci si pone continuamente perché non dialettizzabile: è la scelta tra il bene e il male. Tra i due non esiste sintesi, non composizione. Semmai la viltà del compromesso. La chiameremo necessità, politica, astuzia delle ragione, “tengo famiglia”, primum vivere deinde filosofari, istinto di sopravvivenza. Quindi, valutiamo anche quando sembra che non esistano più valori. Solo che i valori cambiano, dando ragione a quelli che sostengono che i valori sono una creazione della storia [39]. In effetti, il concetto di valore, o meglio la scala dei valori, di un europeo, dopo l’esperienza di Auschwitz o Hiroshima, non può essere la stessa di un aborigeno dell’Australia. Certo i valori cambiano nel tempo all’interno di una stessa civiltà. Il fatto stesso che si lamenti oggi uno scadimento di certi valori e la risalita di altri, è già di per sé un giudizio di valore: cioè alcuni valori, già apprezzati in passato, sono scesi nella scala [40]. Il rammarico implica un desiderio di ripristino. Tutta la storia, nel suo svolgimento è una lotta sui valori: è scontro tra valutazioni diverse. Che cos’è la lotta per la libertà, al punto che per filosofi come Benedetto Croce la storia è storia della libertà, se non un porre la libertà ai gradi più alti della scala dei valori? E così, per la patria, la famiglia, l’amore, il bene comune, la politica. E perché non la giustizia?
Allora, se lo stato attuale del nostro regime politico è tale per tramonto di valori, si dovrebbe concludere che è necessario ritornare a una civiltà dei valori? Ma, quali? è qui che ci si deve porre la domanda: posto che, come ha dimostrato Augusto del Noce, la filosofia di Giovanni Gentile ha subito uno smacco irrecuperabile e definitivo, può, tuttavia, la teoria della societas in interiore homine fornirci un qualche riferimento [41]? L’operazione potrebbe risultare impossibile, perché il pensiero del nostro filosofo è monolitico e non ne è isolabile una parte [42]. Ma il problema non è di realizzare un recupero, anche solo parziale, dell’attualismo della filosofia gentiliana, che noi possiamo anche ammirare per la sua impareggiabile coerenza, ma lasciare come un pezzo storico dietro la vetrina di un museo: ammirazione, non vitalità. Bisogna verificare quali stimoli per il nuovo possono venirci da quel concetto. Il problema è che, se è fondata la diagnosi di una eclissi di valori meritevoli di essere rilanciati, bisogna prima rispondere alla domanda: qual è la loro origine? Da dove nascono i valori? Qual è la loro genealogia? Se dobbiamo proporci  il valore della vita, dobbiamo sapere da dove viene la vita. Così, se dobbiamo proporci il recupero dei valori o di alcuni ben individuati valori, dobbiamo proporci una indagine sulla loro genealogia, che è poi insita nella definizione di valore, in senso astratto, senza specificazioni, ma anche senza psicologismi e soggettivismi. Le specificazioni verranno dopo, quando vorremo costruirne la scala. Qui, se si vogliono rispettare le condizioni poste, si incontrano grandi difficoltà, perché un valore diventa oggettivo solo quando è condiviso da una pluralità.
Si potrebbe affermare che valore è un collocarsi dell’essere-essente di fronte alle cose, ai fatti e agli atti della vita, in condizioni di poter giudicare. In questo senso valore non è a sua volta un valore, ma una capacità coscienziale di giudicare. Kant direbbe che il valore, in quanto ha fondamento nella morale, è l’a priori per antonomasia [43].
Questo ci consente di affermare che nessun computer, pur dotato di una intelligenza artificiale sofisticata, potrebbe mai sostituire un giudice; non solo perché un computer, in cui potremmo includere tutta la dottrina e la giurisprudenza maturata, è privo della esperienza del “mondo” [44], ma perché è privo della coscienza, che consente un apprezzamento, quindi giudizi di valore, su tutta una serie di atti e fatti, che solo un uomo può fare o decidere di non fare. Non vi è dubbio che un computer potrebbe dare risultati tecnicamente migliori delle sentenze di certi giudici. Ma un computer non potrebbe mai fare una vera opera di giustizia. Un computer non può essere un medium tra la norma astratta e il comportamento umano.
Ma all’origine del nichilismo c’è veramente la crisi dell’essere, la sua disgiunzione dall’ente, la rivoluzione della tecnica, la secolarizzazione del mito? O c’è qualcosa di diverso che può essere proprio quella evoluzione del pensiero, che sta alla base della storia in senso idealistico-gentiliano? C’è una evoluzione della conoscenza? Il nichilismo è il crollo del mito o del logos? Osserviamo, nella storia, prima il crollo dei lumi e della rivoluzione francese, con Bonaparte; poi il crollo del positivismo e della scienza; poi il crollo di ogni certezza portato dalle due guerre mondiali; poi il crollo del fascismo; poi del comunismo; poi del partitismo. E quale sarà il prossimo crollo? L’ingegneria genetica? L’uomo sa che è già in atto un’altra caduta, anche se non riesce ancora a identificarla. A mano a mano che la qualità della vita materiale migliora, aumenta la certezza di un crollo imminente. La crisi della giustizia non è altro che crisi del diritto. Non tanto che l’uomo non abbia più fiducia dei giudici, piuttosto non ha più fiducia nella legge in quanto strumento regolativo della vita collettiva, al punto da  rendere dubbio il giudizio di Georges Ripert, che, quando si placa il clamore delle rivoluzioni, l’unica opera che rimane è quella del giurista. Subentra un anarchismo che spinge all’egoismo, alla mancanza di solidarietà. Ma, allora, che cosa tiene insieme le società? Qual è il collante? Potrebbe essere un valore negativo; per esempio: il timore del cambiamento. Il conservatore è tale perché è scettico sul vantaggio del nuovo. Nel dubbio, meglio il mantenimento dello statu quo. Così è preferita la conservazione, che è anche fossilizzazione, cristallizzazione dei fini. Però, si deve considerare che la conservazione dell’esistente si traduce, a lungo andare, in degrado e recesso, poiché la vita – ma bisognerebbe dire: la storia – è naturalmente dinamica e il segnare il passo sul posto è regresso. La storia può andare solo in avanti; lo esige il tempo, che, essendo diacronico, è l’anima del divenire. Ma, a ben vedere, la fossilizzazione dei fini non è altro che caduta fino all’annullamento dei valori. Senza valori non si pongono fini. Il valore ne è la molla. Il percorso, nella politica, è ben noto: l’esistenza di un valore stimola la fissazione di un fine, la cui realizzazione avviene, in genere, attraverso la legge. Il cittadino o le istituzioni, che perseguono il fine, debbono agire nell’ambito del diritto. La giustizia si deve occupare del controllo dell’azione posta in atto per la realizzazione dei fini, siano essi privati o pubblici. I poteri dello stato svolgono tutti funzioni vitali per il sistema, che, però, debbono essere diverse. La democrazia, diversamente da altri sistemi politici, vive e prospera solo se ogni potere è a un tempo controllore e controllato. Il meccanismo salta quando qualcuno sfugge al controllo oppure quando, esasperando con malizia la funzione di controllo, blocca l’operatività fisiologica di un altro potere.
Ora noi possiamo osservare che la caduta o la carenza di valori comporta inaridimento dei fini, ciò che trascina un progressivo arretramento della qualità del sistema politico. Il rischio della democrazia è proprio in questo meccanismo perverso. è opportuno ricordare che la democrazia si regge sul principio di maggioranza. Infatti, se si affidasse a quello di minoranza, avremmo la dittatura, l’oligarchia, l’aristocrazia, la monarchia assoluta, non la democrazia, che, invece, si fonda sulla maggioranza, perché si affida al presupposto, talvolta falso, che la legge dei grandi numeri consenta di mediare l’imbecillità o la disonestà dei peggiori dei suoi aderenti con l’eccellenza dei migliori. Un po’ come avviene in statistica con la curva di Gauss, che descrive la distribuzione della media verso il centro della campana. Tutto questo può avere un fondamento di realtà (non di verità) e, quindi, di accettabilità, a condizione che la maggioranza e la sua maggioranza (cioè la maggioranza all’interno della maggioranza) siano portatrici di valori migliori o, meglio, della miglior interpretazione di valori. Se vanno in crisi i valori, la maggioranza non ha più nulla da esprimere e la democrazia diventa conquista e gestione del potere fine a se stesso. Ma, perché va in crisi, a livello politico, il sistema dei valori? Perché accade una confusione di fini con i mezzi oppure la trasposizione dei mezzi dentro i fini.
Oggi si fa sempre più labile la distinzione tra scienza e tecnica: anzi, si può mettere in dubbio che la prima possa esistere senza la seconda, che la esalta e la spinge continuamente. Ma la tecnica sta alla scienza come il mezzo al fine. è il mantenimento della scissione tra fini e mezzi la condizione per ridurre il rischio di errore di una maggioranza incapace, perché i fini sono di facile controllo anche da parte della minoranza. Invece, è con i mezzi che si realizzano le più incontrollabili fughe dal confronto dialettico tra maggioranza e minoranza e trasporli nei fini è un modo per nasconderli e sottrarli al controllo.
In Italia questo quadro politico ha finito per estendersi anche alla giustizia, coinvolta nei giochi di maggioranza. La sua funzione, o meglio: la sua vocazione, dovrebbe essere quella di mezzo per realizzare il fine, proposto e regolamentato al di fuori di essa. Invece, attraverso la magistratura, ha voluto elevarsi a fonte propositiva dei fini. Anche qui, il mezzo si è trasposto nel fine, annullando il confronto dialettico e di adeguatezza tra fine e mezzo. Se la magistratura, che è mezzo, si pone anche i fini, chi controllerà il suo operato? Chi controllerà i suoi fini? Chi indagherà i valori che dovrebbero esserne la matrice? Una prima cura contro i mali della giustizia può essere il ripristino della funzione del giudice come mezzo e non come fine. Il proposito di quel giudice milanese di “rovesciare la società come un calzino”, da metafora è diventato modus operandi, è diventato fine. Ma l’azione del giudice, che si anima di tale proposito nei confronti della società, corre il rischio di trovarsi in una delle due posizioni:

  • o è braccio armato della politica e, quindi, nemmeno instrumentum regni, ma instrumentum principis e qui ogni commento è superfluo;
  • o è propositore di fini, quindi legislatore o filosofo del diritto. Accade, così, che lo iustum, da modus operandi volto a realizzare la legge, diventi principio. La storia ci insegna che anche questo è un pericolo. Già si è ricordato come Cicerone contribuì in modo prepotente a trasformare la concretezza della bona fides, dell’aequum e dello ius, ben ferma nell’età repubblicana, nell’astrattezza dell’aequitas e della iustitia. La pratica della giustizia divenne spesso esercitazione di retorica. Il fenomeno non si arrestò più fino alla crisi della scolastica medievale, quando, nel XIV secolo, insorse la reazione della scuola francescana di Guglielmo di Occam. Il processo di universalizzazione operato da Cicerone potrebbe determinare quella perdita di concretezza che, per esempio, annullerebbe in un giudice inglese la sua più lodevole caratteristica, quella di essere un “uomo di mondo” e quindi di giudicare con concretezza, un po’ come il giudicante di epoca pre-ciceroniana. Su questo punto potrebbero nascere equivoci, perché il giudice di “mondo”, pur considerandosi un mezzo per realizzare il fine della giustizia posto dalla legge e non dal giudice stesso, potrebbe a sua volta essere costretto a proporre indirettamente e implicitamente i fini. Per esempio: se il giudice, dovendo applicare una legge il cui fine non è più in linea con il tempo, sceglie di essere adeguato al momento storico, realizza, in concreto, una sostituzione di un fine con un altro di propria ideazione. Poiché l’evoluzione di un fine può significare novità, in effetti il giudizio non è mai indifferente o innocuo, pur senza arrivare alle aberrazioni di un fenomeno, ora diffuso soprattutto nel diritto penale, che il processo modifica il diritto [45]. Il problema può trovare una sua soluzione nel non generalizzare casi eccezionali e nell’offrire al giudice lo strumento per disapplicare con correttezza la legge, ciò che è possibile ponendo una legge di rango superiore, o per rimettere il fenomeno nelle mani di una autorità, che è posta non per applicare la legge, ma per controllarne la costituzionalità.

Siamo di fronte a fenomeni di tale complessità, che solo una corretta politica può correggere. Recuperare valori nell’ambito del giudizio non vuol dire necessariamente un rilancio di una “visione trascendentale di giustizia”, che, come ha correttamente sostenuto  Kelsen, si situa su un piano diverso, perché vi sarebbe il rischio di inquinamento del diritto. Né si può desiderare un recupero dell’origine religiosa del concetto di ius, che, in un’epoca di secolarizzazione di tutti gli altri valori, potrebbe legittimare un fondamentalismo, che è proprio ciò che si critica in certi giudici animati da giustizialismo: si auspicano giudici non ajatollah. Né, ancora, si può desiderare una giustizia carismatica, che darebbe decisioni prive di motivazioni, perché impartite dal “buon giudice”, figura mitica, incontrollabile e pericolosa. I valori troppo alti finiscono per cadere presto in basso.
Ci si accontenterebbe di una giustizia senza lettere maiuscole, amministrata da giudici che si limitino a considerare che la corretta applicazione del diritto senza inquinamenti ideologici seppur calata nel “mondo” del proprio tempo, è già di per sé un valore. Non è una pretesa minimalista, dopo la quale ci si riservino chissà quali pericolosi traguardi, ma un obiettivo di ordinario buon senso. Il diritto è il valore che va recuperato. In attesa, che fa il giudice per non peggiorare lo stato delle cose? Si dovrebbe dire, con una tautologia solo apparente, che “si limita a fare il giudice”, cioè a dare con umiltà risposte alle crescenti domande di giustizia, senza obiettivi da “sociologo del diritto” o di “riformatore dei costumi della società” [46]. D’altra parte cosa fa un chirurgo? Forse, mentre opera per salvare o migliorare vite umane, deve porsi problemi sulla natura metafisica o no della chirurgia? Vengono alla mente i versi di Antonio Machado: « Viandante, non esiste la via/la via si fa camminando.»
 


[1]  L’inclusione dell’economia politica, con il significato anglosassone di economics, nelle partizioni della filosofia, è intenzionale e risponde alla constatazione che la matematizzazione dell’economia non ha giovato alla disciplina, perché ignora la sua origine storico-sociale. I grandi economisti sono stati anche filosofi. Econometrica e statistica sono altre cose. Anche i grandi matematici e i grandi fisici sono stati e debbono essere anche filosofi, ma con una filosofia che non è assolutezza del sapere, dogmatismo del sistema o immanentizzazione dello spirito. Gli uomini che sanno gestire il sapere, cioè i sapienti, quale sia il loro punto di partenza, alla fine si ritrovano allo stesso traguardo.
[2] cfr. A. Spinosa, La grande storia di Roma, pag. 380.
[3]  Corte Cassazione, 25.10.1989, n. 4373, in Dir. fall., 1990, II, pag. 708, riportando Ulpiano, D.I, 4,1: « La volontà del principe è legge, pertanto, in virtù della legge regia che istituì la volontà del principe, il popolo trasferì in lui il sui impero e la sua volontà ».
[4]  Si veda la filosofia politica di Dante Alighieri, soprattutto nel terzo libro della Monarchia
[5]  E. Moroni, Diritto di resistenza¸ § 3, pagg. 22-39.  Per il pensiero di Tommaso d’Aquino vedi  Scritti politici,  pag. 169.
[6] Pietro Bovati, Paternità di Dio e giustizia. Un commento al Cantico di Mosè, “La civiltà cattolica”, 15 maggio 1999, n. 3574: « La paternità di Dio è per noi infatti sinonimo di benevolenza, di indulgenza, di pazienza; usando il nome “padre” noi riconosciamo la tenerezza del nostro Dio per gli esseri umani. E questo bisogno di esaltare gli aspetti affettivi del mistero divino ha portato esegeti e predicatori, anche autorevoli, ad affermare che Dio non è solo Padre, ma anche madre, fondando tale asserzione su qualche sparuto testo biblico e, più in generale, sull’idea che la terminologia delle “viscere di misericordia” (attribuite a Dio) si adattasse più pertinentemente alla madre che al padre. Ne risulta il paradosso che il titolo privilegiato con cui il cristiano invoca il suo Dio non sarebbe adeguato a esprimerne la natura. Diciamo subito che questa prospettiva, che sottolinea – in modo prevalente se non esclusivo – gli aspetti psicologici della persona divina, non è un’interpretazione soddisfacente del messaggio biblico, che si serve del concetto di “padre” quale categoria giuridica per esprimere il rapporto di alleanza tra Dio e il popolo di Israele. Dio è padre come è padre un re per il suo popolo, come lo è, per un bambino abbandonato, il padre adottivo. Può sembrare meno personale, può apparire troppo formale e quindi legalistico, il parlare di Dio in termini legalistici, ma è la via scelta dalla rivelazione biblica, che dà molta importanza alla parola data, all’attestazione giurata che crea una relazione e impegna a viverne il senso. Proprio per tale ragione noi possiamo stabilire una stretta connessione con il secondo concetto, quello di giustizia, che dicevamo meritevole di precisazione. è fuor di dubbio che l’idea di giustizia sia dominante nella tradizione religiosa dell’antico Israele e anche – seppure in modo leggermente diverso – nella rivelazione evangelica. …Dio, secondo la Sacra Scrittura, è colui che, fin dal principio, parla; egli è essenzialmente Parola, quindi relazione ad altri, che, come lui, intendono e parlano. Fin dall’inizio Dio è colui che “fa” l’uomo a sua immagine e somiglianza; fin dall’inizio, cioè da sempre, egli è il Padre dell’umanità, e la sua perfezione è giustizia, cioè qualità spirituale che si rapporta all’altro così da rispettare e promuovere la natura di entrambi. Dio è così compreso e denominato a partire dalla relazione (è un Dio dell’alleanza), non per essere relativizzato, ma perché ne venga esaltata la natura, quella di Vita di amore sublime, relazione perfetta con il figlio, giustizia somma perché assoluto rispetto dell’altro e piena comunione con lui. Il mondo del diritto, con la sua terminologia e con le sue istituzioni, in quanto capaci di definire la relazione tra soggetti, viene così assunto dalla rivelazione biblica quale mediazione indispensabile per parlare di Dio e per rilevare il senso della storia umana. Il concetto di Padre è un concetto nel quale si esprime la perfetta giustizia del nostro Dio. »
[7] Corte Cassazione, 25.10.1989, n. 4373, in Dir. fall., 1990, II, pag. 708, riporta da Giambattista Vico, Scienza nuova, (Introduzione), Vol. I, pag. 25: « i primi padri delle nazioni gentili, ch’erano giusti per la creduta pietà di osservare gli auspici, e che credevano divini i comandi di Giove dal quale appo i latini era chiamato Ious, ne fu anticamente detto “Ius”, onde la giustizia appo tutte le nazioni si insegna naturalmente con la pietà. »
[8]  Devoto, I problemi del primitivo vocabolario giuridico romano, (Annali della R. Scuola sup. norm. di Pisa, 1933, pag. 230 e segg.).
[9]  B. Biondi voce “IUS” in Novissimo Digesto.
[10]  G. Devoto,  Avviamento alla etimologia italiana, voce “giure”.
[11]  Per il concetto di “ragione storica”, si veda: U. Galimberti, « Gl’italiani non hanno costumi, solo usanze », in “Il Sole-24 ORE”,  6.7.92, che scrive: « Giambattista   Vico che opponeva alla ragione matematica la ragione storica, mettendo in guardia dai pericoli che sarebbero derivati dall’applicare alla storia le regole della geometria e dello spirito geometrico. Questi pericoli sono lucidamente indicati da Leopardi per il quale il progresso occidentale è in realtà un regresso del mondo umano nella direzione di un opaco e impenetrabile fenomeno fisico in cui non è più leggibile il senso e l’utilità della storia… »   
[12]  L.R. Palmer, La lingua latina,  Torino, 1977, pag. 32.
[13] U. Galimberti, Pensare l’intero e non l’uno, in “Il Sole-24 ORE”, 12.5.1991.
[14] Interessante l’analisi etimologica di maschera, però incerta in tutti i vocabolari. Secondo il Palazzi è entrata nella lingua italiana nel 1300 circa, come come mascara. Potrebbe derivare dal tardo latino masca, con significato di strega, come si legge nell’Editto di Rotari (643 d.C.): strigam, quod est mascam. Il fatto che nel dialetto piemontese e in quello ligure “strega” si dica “masca” può essere una prova della derivazione dalla lingua latina, considerando che i dialetti italiani le sono direttamente collegati; ma, potrebbe derivare dall’arabo che indica maskharah per “caricatura, beffa”; potrebbe risalire addirittura al preindoeropeo, che indica masca per “fantasma nero”. Ma è interessante anche la ricerca etimologica nella lingua latina. Si legge in Seneca (5 a.C. – 65 d.C.), Epistulae ad Lucilium 24,13: « Non hominibus tantum sed rebus persona demenda est et reddenda facies sua (Non soltanto agli uomini ma anche alle cose bisogna togliere la maschera e restituire ad esse il loro vero aspetto) e in Velleio Patercolo (19  a.C.-31  d.C.), Historia romana, 2,30,3: « Invidiam rerum non ad causam, sed ad voluntatem personasque dirigere (Indirizzare gli apprezzamenti negativi non solo alla sostanza dei fatti, ma alle intenzioni e alle persone). » Non sembra indifferente a questi significati uno dei concetti fondamentali dell’esistenzialismo, che è un far vivere l’apparenza dell’uomo in quanto maschera dietro l’essere che rimane celato. Ci si può chiedere se vi sia un rapporto tra esistenzialismo e maschera. Che c’è dietro il dasein di Heidegger?
[15] F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, Roma, 1990, pag. 72.
[16]  cfr. Tribunale di Milano, 6 ottobre 1991, in “Rivista delle Società”, 1999, n. 4, pag. 913.
[17]  cfr.: A. Del Noce, Giovanni Gentile, pag. 77: «  A quest’idea di rivoluzione totale così il materialismo come la dialettica sono parimenti essenziali… Decomposizione necessaria nel senso che l’estensione estrema del momento dialettico, appunto nella forma della logica del pensiero pensante, porta a espungere il materialismo; con piena reciprocità l’estensione estrema del momento materialistico, che oggi in varie forme domina il pensiero occidentale, porta a espungere il momento dialettico e a riconciliarsi con la nuova fase dello spirito borghese. In questa decomposizione del marxismo teorico, parallela al  fallimento della rivoluzione (non perché il marxismo non si sia realizzato e non abbia cangiato il mondo, ma perché, nel farsi mondo, ha realizzato non già qualcosa di diverso, ma l’esatto opposto delle speranze e delle intenzioni dei suoi iniziatori) dobbiamo vedere l’aspetto filosofico della crisi del nostro secolo; e non si può contestare all’attualismo il significato di rappresentarne un momento essenziale…. »
[18]  A. Del Noce, Giovanni Gentile, pag. 77.
[19]  I. Mancini, Filosofia della prassi, pag. 443: « Probabilmente il pericolo di questi assolutismi dello Stato etico, che, con Giovanni Gentile, si sono rifatti proprio a Hegel sarebbero superati se l’ordine delle forme etiche fosse cambiato, mettendo al vertice la società civile e non lo stato. Cosa che fu fatta, per esempio, da Marx e da tutto il travaglio posthegeliano… ». Ma qui Mancini si contraddice, perché a pag. 16 ha scritto: « Peraltro, anche per ammorbidire l’eccessiva portata normativistica e pubblicistica di questa concezione, non si può negare riconoscimento di valore all’invenzione hegeliana della società civile, che esalta istituti intermedi e un modo più completo di produrre l’esistenza, che troveranno incarnazioni rivoluzionarie nei pensatori marxisti, soprattutto con Gramsci: nel tema della società civile il nesso diritto e società prende il sopravvento su quello ancora troppo autoritario del diritto unicamente legato alla logica statuale… »
[20]  U. Galimberti, Idee: il catalogo è questo, pag. 295: « Questa storia per Heidegger, è incominciata con Platone, quindi all’alba dell’Occidente, quando il filosofo di Atene pose la realtà “sotto il giogo dell’idea” per poterla meglio controllare attraverso i mathemata, le anticipazioni matematiche, che offrono lo schema per trattare le cose. Nell’età moderna, con Cartesio, la realtà ha un significato in quanto rappresentata da quel soggetto, l’uomo, che Cartesio nomina “Io penso”. »  Pag. 293: « Per questo il filosofo è solo e incompreso. Della solitudine ringrazia ogni giorno gli dei che gli tolgono di torno gli abitatori del tempo. »
[21]  José Ortega Y Gasset, La ribellione delle masse, pag. 47. C.M. Cipolla, Uomini, tecniche, economie, pag. 107.
[22]  A.J. Carlson, citato da C.M. Cipolla in Uomini, tecniche, economie, pag. 88.
[23]  L’aneddoto è ricordato da S. Ricossa, La fine dell’economia, Milano, 1986, pag. 156.
[24] José Ortega Y Gasset, La ribellione delle masse, pag. 89: « una rivoluzione non dura più di quindici anni, periodo che coincide con il culmine vitale di una generazione. »
[25]  P.G. Jaeger, La “clausola generale” del bilancio nella direttiva comunitaria e nel diritto italiano, in “Giur. Comm.”, 1984, pag. 478.
[26] Cfr. A. Ross, Diritto e giustizia, Torino, 1965. L’autore assorbe l’idea di diritto nel concetto di “validità” e ritiene che la “giustizia” sia l’idea specifica del diritto.  Hans Kelsen, dichiaratamente proteso a liberare la dottrina del diritto da ogni ideologia, scrive in Lineamenti di dottrina pura del diritto,  Torino, 1970, pag. 57: «”Giustizia” nel significato che le è proprio e che la differenzia dal diritto esprime perciò un valore assoluto. Il suo contenuto non può essere determinato dalla dottrina pura del diritto… Infatti la giustizia, che deve essere rappresentata come un ordinamento superiore che sta di fronte al diritto positivo e che è diverso da questo, nella sua validità assoluta sta al di là di ogni esperienza, così come l’idea platonica sta al di là della realtà o come la cosa in sé trascendente sta al di là dei fenomeni. Il dualismo di giustizia e diritto ha lo stesso carattere metafisico del dualismo ontologico e come questo, così anche quello, ha una duplice funzione a seconda della tendenza ottimistica o pessimistica, conservatrice o rivoluzionaria con cui si presenta…»
[27] L’aneddoto dei giudici di Berlino è collegato al concetto di “giustizia di gabinetto”, che Max Weber, in Economia e società, vol. 3, pag.  135, riferisce, come pratica, a Federico II di Prussia.
[28]  L. Mossini, Per questi motivi, Milano, 1981, pag. 82.
[29]  F. Carnelutti, Figura giuridica del difensore, in “Riv. di dir. proc. civ.”, 1940 – Num. 2 – P.I, pag. 5.
[30]  R. Tosi, Dizionario delle sentenze greche e latine, sentenza n. 1117, attribuita a Ulpiano, Digesto 1,10,1.
[31]  Atto II, scena VII: « All the world’s a stage. ».
[32]  L. Mossini, cit., a pag. 52, riferendosi a Salomone e al suo giudizio, scrive: «qual è, dunque – per tornare al nostro emblematico testo – la vera madre? Sembra strano, ma, alla fine, proprio questa domanda, nella logica della “giustizia carismatica”, appare fuori luogo. Perché non della vera, ma della buona madre si dà pensiero Salomone, che non a caso aveva chiesto ed ottenuto dal suo Dio “ un cuore docile” per discernere il bene dal male e, così, rendere giustizia al suo popolo. Discernere il bene dal male e non già solo il vero dal falso come qualsiasi giudice che debba applicare ai fatti una qualsiasi legge. »
[33]  Il concetto di “giustizia carismatica” è di Max Weber, in Economia e società,  vol. IV, pag. 223
[34]  Si ricordi il giudizio di Tommaso d’Aquino, Scritti politici, pag. 358: « La verità è una forma di giustizia.  »
[35]  N. Abbagnano, Dizionario di filosofia, voce “giustizia”, Torino, 1971, pag. 438.
[36] “La civiltà cattolica”  n. 3578, pag. 112 e 113.
[37] A. Guarino, voce “equità diritto romano”, in vol. VI del “Novissimo Digesto”.
[38] Michel Villey, La formazione del pensiero giuridico moderno, pag. 59. Di contrario avviso, ma in relazione alla situazione attuale, è Vittorio Possenti, che, in Le società liberali al bivio, a pagina 90 scrive: « … in effetti il Giusto e il Diritto sono solo una parte del Bene, con cui non possono essere semplicemente identificati: anche nell’etimo jus-justitia e bonum sono diversi. La filosofia politica non si può limitare ad una teoria della giustizia, perché il suo concetto non è originario, contrariamente a quanto sostiene Una teoria della giustizia di J. Rawls. Secondo il filosofo americano “la giustizia è prioritaria rispetto al bene nel senso che limita le concezioni ammissibili del bene, in modo tale che le concezioni la cui sequela viola i principi di giustizia sono da scartare in modo assoluto”. Una società che applica solo criteri di giustizia non ha ancora raggiunto pienamente il bene comune. L’amicizia civica può condurre ad azioni che la giustizia non esige: atti cioè supererogatori (buoni ma non dovuti). Un insieme di soggetti che adottano reciprocamente una vera e propria società politica. » Possenti sviluppa poi la critica a Rawls nel capitolo “Riflessioni su ‘Una teoria della giustizia’ di John Rawls e sull’opera di Norberto Bobbio”, pagg. 177 e segg.
[39]  “I concetti”, UTET, M. Ruggenini, “Valore- filosofia”: « Obiettivo polemico di Rickert è in primo luogo la concezione di un’origine storica dei valori, sostenuta apertamente da Wilhelm Dilthey, per il quale “la produzione delle determinazioni di valore, degli ideali e degli scopi, in base a cui viene determinato il significato di uomini e avvenimenti”, va ricondotta integralmente alla potenza creatrice della storia. »
[40]  Valerio Zanone, Karl Popper e il rasoio liberale, in “Il Sole-24 ORE”, 5.2.95: « Nella società aperta nessun valore può dirsi definitivo. » Francesca Bordogna, Valori comuni per una infinità di culture, “Il Sole-24 ORE”, 11.4.93: «  La tesi della Herrnestein Smith – come suggerisce il titolo del suo libro più importante, Contingencies of value – è che tutti i giudizi di valore sono contingenti. Persone appartenenti a culture differenti o vissute in epoche differenti daranno giudizi diversi della stessa opera letteraria; del resto ognuno di noi può sperimentare questa contingenza del valore rileggendo a distanza di anni un libro letto in passato… Quello dell’obiettivo è un mito, così come quello dei giudizi di valore assoluti… Per Bromwich non c’è una “natura umana” in assoluto: natura umana è sempre il prodotto del tempo e della tradizione… »  Giovanni Santambrogio, Negli abissi dell’agonia, “Il Sole-24 ORE”, 10.10.93: « Se la ragione cerca l’universale, dice, la vita sceglie l’individuale, afferma il continuo cambiamento contro i tentativi di schematizzare tutto e grida il suo desiderio di immortalità contro i fabbricanti di dubbi… “Il cristianesimo è un valore dello spirito universale… Il cristianesimo è qualcosa d’individuale e di non comunicabile. Ecco perché agonizza in ognuno di noi”…»  Vittorio Possenti, Ma li ha scritti la legge di natura, “Il Sole-24 ORE”, 24.2.91. NIETZSCHE, “Al di là del bene e del male”, Roma, 1977, pag. 141: «… Oggi è l’opposto [rispetto al tempo di Socrate], qui in Europa, dove solo l’animale del gregge ottiene onori e onori distribuisce, dove “l’uguaglianza dei diritti” potrebbe anche troppo facilmente mutarsi in uguaglianza dei torti… » – ivi, pag. 66: « Negli ultimi dieci millenni si è invece andati, passo passo, tanto avanti su alcune vaste pianure della terra, da lasciare che l’origine dell’azione e non più le conseguenze decida il suo valore: nell’insieme è un grande successo, un rilevante raffinamento dello sguardo e del metro di giudizio, l’inconscio effetto retroattivo del dominio di valori aristocratici e della fede nell’ “origine”, il segno di un periodo che si può definire in senso stretto come ‘morale’: il primo tentativo di conoscenza di sé è con ciò compiuto. In luogo delle conseguenze, l’origine: che capovolgimento di prospettiva. E un capovolgimento raggiunto certamente solo dopo lunghe battaglie e tentennamenti! In verità: una nuova funesta superstizione, una singolare ristrettezza dell’interpretazione giunse appunto con ciò al predominio: si interpretò l’origine di un’azione nel senso più preciso possibile come origine derivante da un’ “intenzione”, ci si trovò d’accordo nel credere che il valore di un’azione fosse riposto nel valore della sua intenzione. L’intenzione come origine complessiva e preistoria di un’azione: secondo questo pregiudizio, (fin quasi ai tempi più recenti) su questa terra si è sempre moralmente lodato, biasimato, giudicato, e anche filosofato... » – ivi, pagg. 122 e 123 con analisi all’istinto di gregge e al delinquente.  Giandomenico Mucci, Le origini del nichilismo contemporaneo, in “La civiltà cattolica”, 3.4.99, n. 3571: « Uno dei più chiaroveggenti è stato Nietzsche, che è uno di quelli a cui bisogna guardare per rendersi conto della storia interiore dei nostri tempi. Ora Nietzsche vide in questo mondo così apparentemente pieno niente altro che il vuoto, la mancanza la totale assenza di cose credute e sperate, anzi la certezza che non c’è nessun valore e in definitiva che la vita non ha valore…Il nichilismo teoretico compare, nella riflessione dell’ultimo Nietzsche, come la conseguenza della svalutazione dei più alti valori dell’esistenza: Dio, l’anima, la libertà, l’immortalità. Nell’analisi heideggeriana, esso è il sentimento della mancanza di valore del tutto. Si manifesta innanzitutto come mancanza di senso in tutto il divenire…Nietzsche ha stabilito così l’equivalenza tra la trasvalutazione dei valori e la volontà di potenza. I valori trasvalutati traslocano dalla sfera della trascendenza alla sfera della volontà di potenza…Commento di Heidegger: «…Ma Nietzsche concepisce la metafisica della volontà di potenza proprio come oltrepassamento del nichilismo… sul presupposto, però, che il pensare per valori sia eretto a principio. Ma se il valore non lascia che l’essere sia l’essere che esso è in quanto essere, il presunto oltrepassamento non sarà che il compimento del nichilismo. »
[41] Introduzione di Giorgio Brianese a: Giovanni Gentile, L’attualismo, scrive: « Già ne ‘I fondamenti della filosofia del diritto’… Gentile aveva comunque descritto una società fondata non tanto sull’accordo tra gli individui, quanto piuttosto su una sorta di necessità naturale inscritta nello stesso esser-uomo: la società – scriveva allora Gentile – «non è perciò ‘inter homines’, ma ‘in interiore homine’; e tra gli uomini è solo in quanto tutti gli uomini sono, rispetto al loro essere spirituale, un uomo solo, che ha un solo interesse, in continuo incremento e svolgimento: il patrimonio dell’umanità»….«il volere come volere comune e universale è ‘Stato’. Per intendere il quale, secondo la sua essenza, non bisogna fermarsi ad alcuno de’ suoi aspetti empirici»…. Hegel, come è noto, aveva fatto proprio dello Stato il momento più alto dell’eticità…E tuttavia vi è, tra le due posizioni, una differenza profonda, messa bene in luce da Norberto Bobbio, là dove rileva che «in realtà Gentile aveva tratto da Hegel più la formula dello stato etico che non la sua sostanza. Mentre, per Hegel, maestro di realismo politico, lo stato appartiene al momento oggettivo dello Spirito, per Gentile diventò un atto dell’unico Soggetto che crea e ricrea dal suo seno tutta la realtà. Se per Spiritualismo s’intende la riduzione di ogni realtà all’interiorità, lo spiritualismo ebbe la sua massima espressione nella filosofia di Gentile: il quale con la sua teoria dello stato non inter homines ma in interiore homine, ridusse a fatto interiore anche la realtà corposissima dello stato. »
[42]  Introduzione di Giorgio Brianese a: Giovanni Gentile, L’attualismo, scrive: « Vi è, nella filosofia del Gentile, un potente e costante richiamo all’unità immanente del pensiero, a quella « immanenza di tutto il pensabile all’atto del pensare », che costituisce la cifra autentica dell’attualismo e, ci pare, la chiave più utile per intenderlo. Tale richiamo implica una difficoltà strutturale per chi si accinga ad un sia pur rapido esame del sistema filosofico gentiliano: quella, cioè, di dover affrontare come se fossero l’uno dall’altro separati quegli ambiti del sistema che non sono autenticamente pensabili se non come aspetti diversi di un unico, grande tema fondamentale. Le diverse parti, di cui il sistema gentiliano si compone, non possono infatti essere valutate, pena un fraintendimento radicale, nella loro isolata singolarità, ma devono essere interpretate a partire da quell’unità essenziale che la rende momenti di quell’unico «atto» in cui il pensiero (filosofico) consiste.»
[43]  cfr G. Reale-D. Antiseri,  Il pensiero occidentale dalle origini ad oggi,  Brescia, 1983, pag. 680, trattando di Kant: « L’imperativo morale si rivelerà una “sintesi a priori” non fondata sull’intuizione sensibile né sull’esperienza (e dunque di tipo noumenico) », che diventa più comprensibile se si considera la distinzione di Kelsen tra validità e valore. Scrive R. Treves nella “Prefazione” a Lineamenti di dottrina pura del diritto,  Torino, 1970, pag. 17: « Le pretese dei giusnaturalisti di sostituire il diritto positivo col diritto naturale o di sostenere che il diritto positivo se è contrario al diritto naturale non è diritto, derivano, secondo Kelsen, dalla confusione che essi fanno della validità, che è la condizione dell’esistenza del diritto positivo, con il valore, che è il fondamento ideologico del diritto naturale… »
[44]  La giurisprudenza, in quanto raccolta di casi, è esperienza, ma solo giuridica. Di “mondo” deve essere il giudice, proprio per produrre le sentenze; il giudice è la causa, la sentenza è l’effetto, il giudice è il pensante, la sentenza è il pensato.
[45]  vedi: F.M. Iacoviello, Il falso in bilancio nei gruppi di società: come il processo penale modifica il diritto penale, in “Cassazione penale”, 1998, vol. III, pag. 3151 e citato con adesione da A. Crespi in Dir. soc., 1999, n. 1, pag. 184.
[46] Renato Treves, filosofo del diritto, fondatore della sociologia del diritto in Italia e traduttore di Lineamenti di dottrina pura del diritto di Hans Kelsen, cit., scrive nella “Prefazione”: « Se, come si vede, Kelsen non nega ma riconosce anzi la legittimità e l’importanza della sociologia del diritto, egli respinge però con la massima energia le pretese di quei giuristi sostenitori della cosiddetta “giurisprudenza sociologica” i quali vorrebbero sostituire “la scienza del diritto” con la sociologia del diritto e considerare la sociologia del diritto come l’unica scienza del diritto. »