La Fondazione Achille e Giulia Boroli pubblica il volume di Sergio Ricossa “Vivere è scegliere. Scritti di libertà”, crestomazia di scritti di una vita passata a “pensare” la libertà. “Pensare” non è far trascorre il tempo in un otium, ma in Ricossa è impegno civile e azione, come dimostrò nel 1986 alla guida di un corteo di trentamila dimostranti contro l’oppressione fiscale. Si potrebbe dire che, pur agli antipodi di Giovanni Gentile, realizza l’unitarietà e la contemporaneità (si potrebbe aggiungere: l’attualità) del binomio pensiero-azione, che diventa monomio. Se si volesse riassumere il concetto portante di una produzione scientifica e letteraria di primissimo livello, si potrebbe affermare che alla base di tutto in Ricossa non è tanto il liberismo, effetto e non causa, ma la libertà, come ben riassume la prima parte del titolo del libro, che prefigura una retta a tre inscindibili segmenti, inclinata verso l’alto: il primo tratto è la libertà, che consente di scegliere, che a sua volta determina il vivere.

Ricossa è un grande economista, l’unico italiano membro della Mont Pelerin Society e accademico dei Lincei, che ha un senso molto pragmatico della libertà, come ben si evince dal titolo del libro. Cioè la libertà non è un concetto metafisico; non è la libertà intellettuale e spirituale come la intende Dostoevskij nel tragico libro Memorie di una casa morta e nemmeno come l’ha pensata Rousseau, padre inconsapevole di assolutismi. Essere liberi vuol dire innanzi tutto sentirsi liberi dentro, ma non basta: è necessario che la libertà individuale non si esaurisca in un sentirsi, ma possa esplicarsi in un contesto di altri uomini liberi, cioè la libertà che si traduce in vivere e in scegliere è quella che dovrebbe costituire il cuore di una vera democrazia e deve volgersi in politica, in operatività nella polis, non nell’eremo. Queste considerazioni sono la premessa non ideologica di un passaggio successivo, inevitabile e univoco: un sistema politico che opprime il cittadino con un prelievo fiscale da rapina non può essere una democrazia, soprattutto se il prelievo non è premessa di un ritorno di servizi dal governante al governato, dall’oppressore all’oppresso – ritorno che, quand’anche esistesse, già minerebbe comunque la libertà di scegliere – ma la pressione fiscale è una requisizione finalizzata allo sperpero e al beneficio degli amici degli amici dei partiti al potere. Si ha un bel dire che, se questo stato di cose non aggrada, dopo un tot anni la cabina elettorale può mandare a casa i profittatori; innanzi tutto perché per il tempo del loro potere i governanti si sono riempite le tasche, in secondo luogo perché ogni sottrazione è comunque riduzione della libertà.

Chi cercasse nel volume precise identificazioni politiche resterebbe deluso, perché Ricossa non fa questioni di simpatie per un partito piuttosto di un altro: è una trappola da cui la sua raffinatezza culturale e la sua probità intellettuale lo tengono ben distante.

Ricossa non pensa in termini assoluti allo “stato minimo” teorizzato da Nozick, perché ben sa che quel regime politico, idealizzato dal filosofo americano per provocazione al ragionamento, non garantirebbe lo sviluppo della libertà: sarebbe pur sempre “troppo minimo” ed escluderebbe dalla sopravvivenza chi, senza colpa, può trovarsi in difficoltà. Oltretutto non avrebbe concrete possibilità di istituzione senza creare contrapposizioni sociali violente e sovversive. Pensa più a von Hayek e alla scuola austriaca, che non è partita dallo stato per intendere la libertà, ma dalla libertà per intendere lo stato. È questione di “giusto equilibrio”, pur con le incertezze dello iustum, che tanto impegnò, seppur sul diverso tema del prezzo, sia i grandi giureconsulti romani dalla repubblica all’impero, sia San Tommaso, il cui pragmatismo si dispiegò nella famosa lettera alla contessa di Brabante nell’aureo libretto De regimine principum, che i nostri governanti, soprattutto di origine cattolica (come sono lontani dalle radici!) non hanno mai letto o maliziosamente ignorano, soprattutto nella risposta dell’aquinate alla settima domanda della contessa dei Paesi Bassi [1].

Ricossa non dà una terapia specifica, perché non si atteggia a medico curante e perché ben sa che la libertà non è una profilassi, ma è uno status dello spirito, che si trasla sul contesto sociale e sullo Stato. Non credo di contraddire il nostro autore se cito ancora una volta Giovanni Gentile, ma solo sul punto in cui questi propone la distinzione dello Stato tra fondamento inter homines e in interiore nomine. Ricossa intende il rapporto tra le due condizioni come una necessaria e strumentale compenetrazione, là dove il Gentile dà invece esclusività al secondo, negando la libertà individuale come manifestazione autonoma e non finalizzata allo Stato, quindi negando il liberismo e volgendolo, invece, in statalismo idealistico. I due autori non potrebbero essere più distanti, ma è un esempio come si possa partire da un rovescio per ricavarne un diritto.

Quella oppressione fiscale, pistola con il colpo in canna puntata alla tempia del contribuente, mi richiama la triste fine del ministro Prina, che, avendo passato il segno, il 20 aprile 1814 fu ammazzato dai pur compassati, ma non gelatinosi, milanesi. E, ancora, richiama il testo di Pascal Salin La tirannia fiscale.

I ministri delle finanze sono massimalisti e tosatori per natura, ma se scorticano la pecora possono vederla trasformata in leone.

Non si può chiudere il richiamo al pensiero di Ricossa senza accennare allo stile con cui è espresso. Ricossa scrive un italiano chiaro, impeccabile e piacevole, che si distingue soprattutto in un’epoca di becerume editoriale, che anziché la bancarella del libraio meriterebbe la catasta di rifiuti di Napoli.

C’è molto da imparare da Ricossa e, poiché viviamo in momenti tristissimi in cui le idee degli avversari non contano, ma il solo referente è il proprio partito (spesso solo degli affari!), si deve auspicare che gli altri, che non hanno portato il cervello all’ammasso e ancora amano pensare alla libertà, leggano e riflettano sul messaggio di un economista, che sente l’urgenza interiore di varcare i limiti della scienza economica per dare respiro all’analisi critica del fondamento della convivenza civile.

Ma la libertà è un costo molto salato in un contesto di negatori e nemici palesi, subdoli, ipocriti, tartufeschi, allietati dai canti di affamati intellettualoidi paludati da giullari di corte, e Ricossa quel costo lo ha subìto, rifiutando aloni profetici e ritirandosi a osservare con distacco un mondo che va alla deriva. Il pensiero per essere veramente libero deve circondarsi di discrezione e silenzio, quasi esiliarsi…in patria. Come non ricordare, istintivamente, i versi dolorosi e sublimi di Dante: il poeta di Dio e dell’uomo?

libertà va cercando, ch’è si cara,

come sa chi per lei vita rifiuta[2]

 

Pietro Bonazza


[1] De regimine judaeorum. Ad ducissam Brabantiae: «Septimo quaerebatis, si officiales vestri absque iuris ordine aliquid a substitis extorserint, quod ad manus vestras devenerit, vel non forte, quid circa hos facere debeatis. Super quo plana est responsio: quia si ad manus vestras devenerint, debetis restituire vel certis personis, si potestis, vel in pios usus expendere, sive pro utilitate communi, si personas certas non potestis invenire. Si autem ad manus vestras non devenerint, debetis compellere officiales vestros ad consilimilem restitutionem, etiam si non fuerit notae vobis aliquae certae personae, a quibus exegerint, ne a sua iniustitia commodum reportent: quinimmo sunt a vobis super hoc gravius puniendi, ut ceteri a similibus abstineant in futurum: quia, sicut Salomon dixit, pestilente flagellato stultus sapientior fit».

[2] Divina Commedia, Purgatorio, Canto I, 71-72.