Perché si è voluto, non solo da Israele, ricordare il 27 gennaio di ogni anno: memoria dell’Olocausto, in ebraico Shoa? La risposta è: per non perdere la memoria di un eccidio, riconoscendo che esiste il pericolo di dimenticanza di un fenomeno che, dopo la sua conoscenza, ha colpito e continua a colpire le coscienze, soprattutto nel mondo Occidentale, in particolare dell’Europa, forse anche perché l’Olocausto si consumò sulla terra europea già insanguinata nei secoli da spietate guerre di religione. Il filologo ebraista Giulio Busi riprone in questi giorni il dubbio drammatico: fino a quando la memoria non sarà solo una data di calendario? Cioè: quando incomincerà ad affievolirsi nelle nuove generazioni la tragedia dell’Olocausto? Problema già affrontato dal filosofo francese Jacques Derrida in una conferenza pubblica a Gerusalemme.

Esprimo una opinione del tutto personale. Inizio con due osservazioni preliminari:

a)      non intendo riferirmi alla memoria in genere, che, tra l’altro, non è sempre sinonimo di ricordo, ma alla memoria collettiva, che interessa lo storico e il sociologo, mentre la memoria individuale, riguarda il soggetto singolo, che interessa le neuroscienze;

b)      la memoria collettiva, coinvolge, invece, interi popoli, depositari del fenomeno storico ed a questa che si riferiscono il prof. Busi e il prof. Derrida, che esaminano il pericolo della dimenticanza.

 L’Olocausto richiama alla mente due altri autori celebri tedeschi:

  • Theodor W. Adorno, sintetizzò la tragedia in un brevissimo ultimativo aforisma: «Dopo Auschwitz tutta la cultura è spazzatura» (in Dialettica negativa);
  • Karl Jaspers, ha scritto un testo fondamentale, il cui titolo è emblematico: “Die schuldfrage [La questione della colpa]”, che nella traduzione italiana è “La colpa della Germania”, accettato dall’autore.

Non intendo seguire Jaspers, non certo che non sia degno di nota, ma perché qui non si esamina il problema della colpa, ma della memoria degli effetti.

E, allora, quattro osservazioni:

1.)     l’Olocausto, seppur il più tragico per tante circostanze, non fu, putroppo, l’unico della storia, che è piena di olocausti, come, per esempio, il genocidio degli Armeni, a opera dei Turchi; la strage degli Ucraini (7 milioni uccisi, di cui 3 milioni bambini, e 2 milioni spediti nei campi di concentramento) voluta da Stalin; le purghe di Ungheria e Cecoslovacchia del 1956 e 1968, con uccisioni in massa; le stragi di Pool Pot; le pulizie etniche succedute alla disintegrazione della Yugoslavia; a cui potremmo aggiungere le continue stragi di cristiani in paesi di preponderante religione islamica, e così via;

2.)     che cosa si ricorda di questi tragici eventi anche a non molti anni di distanza? La memoria collettiva non è uguale per tutti ed è infinitamente più intensa nei popoli che li hanno sofferti. Per gli altri la memoria è più labile e circostanziata. Per esempio, per gli italiani la memoria, oltre il fatto in sé e la conta dei morti, si radica più facilmente in certi personaggi nostrani: l’attuale capo di stato, che si pavoneggia tra coccarde e fasce tricolori, plaudì ai carri armati in Ungheria, perché “l’Urss porta la pace”, già! la pace dei carri armati. Se chiediamo a un giovane italiano chi era Jan Palach, che risposta possiamo attenderci? Tutto questo per constatare come la memoria collettiva sia relativa, almeno spazialmente, oltre che temporalmente. Ma questo è egoismo, perché ci si illude che dimenticando si esorcizzi un fenomeno, che potrebbe ripetersi in ogni momento, ignorando che la storia è maestra di vita solo se si mantiene intatta la memoria delle terribilità. Invece, l’uomo dimentica, perché vuol dimenticare e si comporta come lo struzzo;

3.)     che cosa si fa per tentare di fermare la perdita della memoria? Le forme sono tante: dalla toponomastica delle vie dedicate a personaggi ai monumenti; dai cimiteri alle tombe di uomini illustri (si ricordino I sepolcri di Ugo Foscolo) sono richiami alla memoria;

4.)     se la perdita o anche solo l’attenuazione della memoria è fenomeno inevitabile, che può accadere “dopo”? Può accadere un Alzheimer collettivo e in una civiltà di massa come la nostra comporta che diventa irrilevante lasciare i fatti ai libri di storia, che poi nessuno o pochi leggono e capiscono, ammesso che riportino la verità, che, invece, è consegnata alle mani sporche delle televisioni e dei  film che il popolo beve senza senso critico. Ma, c’è una speranza, e lo dico a conforto di Busi e Derrida: nel caso di dimenticanza, potrebbe accadere che il senso preciso di un certo evento si sfrangi nella memoria con il passare del tempo e il susseguirsi delle generazioni, ma sarebbe ancora una conquista, forse più importante della memoria specifica, se gli eventi criminosi, di cui ho riportato solo alcuni esempi, si decantassero, diventando valori collettivi e principi giuridici. La trasformazione in valori è la speranza del futuro, affinché gli eventi negativi non si ripetano. Purtroppo, se si osservano talune caratteristiche comportamentali delle giovani generazioni attuali, edoniste, nichiliste senza nemmeno un fondamento illuministico seppur negativo, vien da dubitare che tragedie, che hanno travolto alcuni popoli fin quasi a cancellarli, si siano depositate in valori morali e principi fondamentali. Se le tragedie collettive prima esemplificate non sono più presenti nella memoria e non si sono tradotte in valori, sono state sofferte invano. I morti, sappiamo, non possono più parlare, ma, se pure la memoria svanisce, svanisce anche la storia, che non ha più insegnamenti da impartire e la cultura diventa quella spazzatura denunciata da Adorno e non ci sono più toponomastiche, monumenti o altri strumenti che possano realizzare la finalità di fissare la memoria e richiamare il ricordo di eventi, che costituiscono la certezza della storia. Per esempio: potrebbe un cristiano dirsi ancora tale, se dimenticasse l’evento della Crocifissione? È come pensare che un albero possa sopravvivere senza radici!

Gli olocausti  svaniti dalla memoria senza tradursi in valori finiscono espulsi dalla storia.