Ineffabile bellezza (Ineffable beauty)

Il problema non solo teologico, anche fisico, della morte di Gesù Cristo non si limita al legno insanguinato del supplizio della croce, ma trova una espressione tragica nella deposizione e nell’oscuro accadimento del fenomeno biologico del sepolcro, prima della gloria della Resurrezione di quel corpo straziato. Tre grandi pittori hanno affrontato il problema nella sua complessità e, trascurando la sequenza temporale della loro realizzazione, ricordiamo: Caravaggio (Deposizione di Cristo – 1602, che richiama la Pietà Rondanini di Michelangelo, circa 1560), Mantegna (Cristo morto –  1480), Holbein il Giovane (Il corpo di Cristo morto nella tomba, 1521).

Sono opere che vanno oltre l’arte, introducono alla complessità della teologia e sono lontane dalla magnificenza della gloria della Resurrezione.

Ai fini di questa nota, consideriamo la rappresentazione di Holbein, di un verismo impressionante, che colpì Dostoevskij, secondo il racconto della moglie Anna Grigor’evna, quando osservò il quadro di Holbein nell’agosto 1867:

«Durante il viaggio a Ginevra, ci fermammo a Basilea per visitare il museo, dove c’era un quadro di cui mio marito aveva sentito parlare. Questo era una pittura di Hans Holbein, rappresentante Cristo dopo il suo inumano martirio, ora tolto dalla croce e nel processo della decomposizione. La visione del volto tumefatto, pieno di ferite sanguinolente, era terribile. Il quadro ebbe un effetto opprimente su Fëdor Michailovic. Rimase in piedi davanti ad esso, come stordito. E io non avevo la forza di guardarlo – era molto doloroso per me, specialmente nelle mie condizioni [era incinta] – e andai in altre stanze. Quando tornai, dopo quindici o venti minuti, lo trovai conficcato allo stesso posto, di fronte al quadro. Il suo volto agitato mostrava una specie di paura, qualcosa che avevo notato più di una volta in precedenza, nei primi momenti di un attacco epilettico. Con calma presi mio marito per il braccio, lo portai in un’altra stanza e lo feci sedere su una panca, aspettandomi un attacco in ogni momento. Grazie al cielo, questo non arrivò. Si calmò un poco alla volta e lasciò il museo, ma insistette di tornare di nuovo là, a vedere questo quadro, che l’aveva impressionato tanto».

Nel 1869, Dostoevskij pubblica il famoso romanzo L’idiota, in cui fa dire al personaggio principe Myskin davanti a una copia del dipinto di Holbein:

«Osservando quel quadro c’è da perdere ogni fede», a cui risponde Rogozin:

«E infatti si perde» tale è la reazione davanti all’impressionante raffigurazione del corpo all’inizio del disfacimento, quasi si potesse dubitare della Resurrezione successiva.

Ma, mi pare pertinente la domanda, che qui mi pongo e che è il motivo di questa nota:

«È ancora possibile parlare di bellezza dopo quella visione?».

Secondo Dostoevskij sì, se si considera che nello stesso romanzo fa affermare dal principe Myskin: «la bellezza salverà il mondo», ma è evidente che è lo stesso Dostoevskij che parla, però in russo e, allora, sorge un primo problema: “bellezza è una traduzione, ma il significato è lo stesso come lo si intende nel mondo occidentale?”; per semplicità supponiamo di sì, ma resta la constatazione che la “bellezza” per il romanziere russo può essere incoerente con la reazione davanti al quadro di Holbein, che non invita certo a considerazioni positive sulla bellezza, a meno che Dostoevskij non avesse inteso, come è probabile, un significato teologico, più che estetico.

Non bisogna nemmeno dimenticare che un filosofo non cattolico, probabilmente ateo, come Schopenhauer, affermò, nel Mondo come volontà e rappresentazione, la funzione catartica dell’arte.

Se tutto questo può convivere con la morte, ci si chiede:

«Che cos’è, allora, la bellezza?» e, a seguire: «Che cos’è la bellezza secondo il cardinale Joseph Ratzinger, poi Papa Benedetto XVI, che di bellezza trattò nel meeting di Roma 2002 e in altre occasioni?».

 Risaliamo all’origine della parola e ricordiamo che “bellezza” è il sostantivo di “bello”, che deriva dal latino bonus (buono). Quindi bellezza ha significato di bontà e già scivoliamo dall’estetica alla morale con Dostoevskij e Schopenhauer, seppur per riferimenti diversi. E, se siamo nella morale, siamo anche nella teologia, da qui il rinvio al pensiero del cardinal Ratzinger.

Questo profondo teologo dei nostri tempi, nei riferimenti sopra citati intende la bellezza come:

“…La necessità e l’urgenza di un rinnovato dialogo tra estetica ed etica, tra bellezza, verità e bontà, ci vengono riproposte non solo dall’attuale dibattito culturale ed artistico, ma anche dalla realtà quotidiana. A diversi livelli, infatti, emerge drammaticamente la scissione, e talvolta il contrasto tra le due dimensioni, quella della ricerca della bellezza, compresa però riduttivamente come forma esteriore, come apparenza da perseguire a tutti i costi, e quella della verità e bontà delle azioni che si compiono per realizzare una certa finalità. Infatti, una ricerca della bellezza che fosse estranea o avulsa dall’umana ricerca della verità e della bontà si trasformerebbe, come purtroppo succede, in mero estetismo, e, soprattutto per i più giovani, in un itinerario che sfocia nell’effimero, nell’apparire banale e superficiale o addirittura in una fuga verso paradisi artificiali, che mascherano e nascondono il vuoto e l’inconsistenza interiore. Tale apparente e superficiale ricerca non avrebbe certo un afflato universale, ma risulterebbe inevitabilmente del tutto soggettiva, se non addirittura individualistica, per terminare talvolta persino nell’incomunicabilità… Non vi è fantasia che possa fare concorrenza a chi osserva la natura”.

Come si può notare, bellezza non è solo un concetto estetico, ma, soprattutto, teologico, se associato, come deve essere, a verità e bontà. Solo così si può comprendere l’affermazione di Dostoevskij che la bellezza salverà il mondo. Se così non fosse, come si spiegherebbe che il XIX Secolo, che pure conosceva la bellezza estetica, visse l’estremo degrado di due guerre mondiali e dei campi di sterminio, che furono l’annientamento dell’uomo? Che cosa mancò? Non solo la bellezza in quanto tale, ma il suo indissolubile vincolo con la verità, che è, poi, il vincolo con la libertà.

Ma non dimentichiamo  le numerose ricorrenze del sostantivo “bellezza” (non l’arcaico “beltade”!) in Dante Alighieri. Scegliamone una riferita a Maria, la “figlia del tuo figlio”, che pare anticipare di due secoli l’Annunciata di Antonello da Messina: 

Paradiso, Canto XXXI, 133-138

Vidi a lor giochi quivi e a lor canti
ridere una bellezza, che letizia
era ne li occhi a tutti li altri santi;

e s’io avessi in dir tanta divizia
quanta ad imaginar, non ardirei
lo minimo tentar di sua delizia.

Concludo affermando che la bellezza va servita sul piatto della verità.