Scrivo questa nota pur non essendo un filosofo, né uno storico, né un sociologo. Non vorrei nemmeno esserlo, perché mi priverei del vantaggio di pensare senza rifarmi a fonti e, invece, preferisco parlare a caldo, con il cuore in mano, con la passione di chi vive un problema senza soluzione e perciò angosciante. Non mi manca il pane, ma non sono nemmeno un borghese, perché non mi sento cinghia di trasmissione di alcunché, mentre il borghese è interclassista per definizione. Sono un esiliato in patria, che desidera ardentemente un’Italia, anzi un italiano, migliore e ha la consapevolezza che ogni sforzo individuale sarebbe del tutto inutile. Meglio fallire che ammettere di non aver tentato, dice un saggio animoso. Ma il saggio deve anche avere la consapevolezza di ciò che è possibile e di ciò che non lo è. Non si va in guerra armati di spilli, se il nemico impiega l’atomica. Si sta a casa e si attendono tempi più adatti. Però, nel mio caso manca il tempo per un’attesa non sterile. La probabilità e la tavola demografica giocano contro di me. E io nella matematica probabilistica e nella demografia credo, forse per deformazione professionale. È il mio limite!

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Anacleto Verrecchia, un filosofo che usa la lingua del “sì” come pochi, innamorato ricambiato con tiepidezza dal suo Paese tanto amato, nonostante sia stato ambasciatore di italianità all’estero e non sia mai caduto nell’atteggiamento di chi frequenta l’Oltreconfine e diventa esterofilo e spregiatore della propria identità; al contrario, assume le vesti di un penalista appassionato d’altri tempi davanti al tribunale della storia internazionale. Mi ha chiesto, più d’una volta, ma sarebbe più corretto dire si è chiesto: perché gli italiani sono quel che sono? Ovviamente pensando che potrebbero (dovrebbero) essere diversi; anzi, migliori.

Nel suo saggio Prezzolini l’eretico dello spirito italiano, che ha l’apparenza di una testimonianza, ma in realtà è una critica in senso kantiano, dimostra all’amico che non è giusto essere antitaliani. La sua onestà intellettuale lo costringe a dire ciò che pensa allo stimatissimo Prezzolini, perché non esiste legame parentale o amicale che possa deviarci dal giuramento a se stessi di anteporre lo spirito critico e la illuminazione della verità e, quando mi rivolge e mi coinvolge nella domanda “perché gli italiani sono quel che sono”, mi trovo ancor più di lui disorientato, tanto più essendo io, al suo opposto, un sedentario privo di termini di paragone con popoli di altri Paesi.

Però la domanda resta e delle più pressanti, soprattutto in questi tempi di barbarie intellettuale e morale.

Verrecchia avanza l’ipotesi che noi siamo un popolo senza orgoglio [1] e, quindi, la difesa della nostra identità è affidata al singolo italiano. C’è un nesso con la constatazione che in pochi anni nel XVI secolo gli italiani donarono al mondo geni come Michelangelo e Leonardo in testa a una serie lunghissima, mentre agli svizzeri occorsero secoli per inventare l’emmental e ai tedeschi della Foresta Nera per l’orologio a cucù, ai francesi che senza l’emigrante Caterina de’ Medici si sarebbero arrestati ai capetingi e ai normanni, agli austriaci absburgici, che senza il piemontese Eugenio di Savoia sarebbero diventati una propaggine francese e così via? Ma la risposta, Verrecchia se la dà proprio affermando che siamo un popolo senza orgoglio. Che vuol dire popolo senza orgoglio? Vuol dire non-popolo, solo popolazione: un dato statistico-demografico. Ma come è possibile che gli italiani siano quel che sono, se hanno la più forte, sentita e condivisa koiné, che si possa desiderare? Una lingua, che è un canto e non una cantilena: un incanto di lingua, che, si dice, è quella che meglio resiste tutt’oggi agli assalti delle barbarie anglo-americane (Shakespeare è altra cosa, forse perché di origine italiana, secondo una teoria non priva di riscontri) e che è resistita nei secoli dalla sua nascita ai nostri giorni, talché oggi un italiano di media cultura può leggere Dante in originale, mentre un francese riesce a leggere con difficoltà Racine, per non parlare dei tedeschi!

Un paese senza orgoglio: dice bene Verrecchia. Nonostante di orgoglio ne avremmo da vendere, se solo pensiamo che su ogni strada che parte da Roma sembra di ricalcare le orme di Giulio Cesare, che, come dice Svetonio [2], marcia in testa alle sue legioni sotto il sole o la pioggia, orgoglioso e fiducioso nei suoi fedeli commilitones alla conquista del mondo. Orgoglio da vendere perché già nel 32 a.C. Cesare Ottaviano Augusto, il fondatore dell’impero, riconoscendo la cittadinanza romana a tutte le genti abitanti dalle Alpi al mare, ottenne il consenso delle stesse e nel 14 d.C. poco prima di morire scrisse: «Giurò sulle mie parole tutta l’Italia» [3]. L’idea di un Italia non come espressione geografica, come avrebbe detto l’insulso e ottuso codino Metternich, era ben altro che un’espressione geografica: era un popolo, che parlava la stessa lingua e perciò era nazione. Come non sentirci un popolo e una nazione dopo questo precedente fondativo? È un obbligo morale; giuridicamente un’obbligazione! C’è da essere orgogliosi, senza bisogno di nazionalismi o, peggio, sciovinismi. Orgoglio da vendere perché, dopo il Dante “del bel paese là, dove ‘l sì suona” [4], e dell’invettiva: contro I dispregiatori del proprio volgare [5], Petrarca canta “il bel paese/ch’Appennin parte e ‘l mar circonda e l’Alpe” [6] e dopo di lui Machiavelli, che chiude il Principe con i versi di Petrarca: Virtù contro a furore/prenderà l’arme, e fia el combatter corto;/ché l’antico valore/nell’italici cor non è ancor morto”. Ogni speranza di essere diversi da quel che siamo sfumò come aveva diagnosticato l’altro dioscuro della scienza politica del XVI Secolo: Francesco Guicciardini, assai meno poetico di Machiavelli, ma di lui più concreto, pratico e pessimista, più “uomo di mondo”, come direbbero gli inglesi.

Si spiega così perché una mente geniale e filosofica insediata nell’animo dolente di Giacomo Leopardi, in quella miniera di pensieri che è lo Zibaldone [7], ebbe ad affermare con amarezza: «Gl’italiani non hanno costumi, solo usanze», intendendo per costumi i mores dei romani e per usanze: mere consuetudini, prive di substrato morale, una prassi, cioè un comportamento meramente pratico e ripetitivo.

Si spiega, ancora, perché Massimo D’Azeglio ebbe a dire, dopo il 1861: «l’Italia è fatta, restano a fare gli italiani» [8], ove per italiani intendeva il popolo italiano.

Si spiega anche perché Giovanni Gentile, di cui si può rifiutare tutta la filosofia, ma non negare un amore mistico per questo nostro Paese, abbia sostenuto che è lo Stato a fare la nazione e non viceversa [9], intendendo, quasi a riecheggiare il programma di D’Azeglio, che, poiché la creazione della nazione italiana non si era mai realizzata per spontaneità, avrebbe dovuto pensarci lo Stato, implicitamente in una posizione di sussidiarietà. Non è certo per questa via che si crea una nazione; semmai si irrobustisce solo lo Stato, con i pericoli che ne conseguono, ma l’anelito resta.

Si potrebbe sostenere, con intento consolatorio, ma sterile, che ormai la nazione e con lei l’orgoglio di essere un popolo sia svanito in tutta Europa, perché il disvalore del guadagno a ogni costo, della sete di potere alleato del lucro, del benessere come fine della vita sono denominatori comuni. Non saprei dire se è constatazione corretta. Se lo fosse, non cambierebbe la negatività della situazione, ma significherebbe solo un male comune, che non fa certo un mezzo gaudio.

Così Verrecchia e io continuiamo a rimuginare sulla domanda e una soddisfacente risposta resta un pio desiderio, anche se un perché è sempre l’essenza di una domanda filosofica e non vale certo a cambiare da sola l’effetto pratico, che resta: perché gli italiani sono quel che sono?

Basta rispondere: perché sono fatti così e mettiamoci sopra una pietra? È una risposta questa? Non lo è e resta l’amarezza di non riuscire a proporre nemmeno una credibile diagnosi. Di tentativi sono piene le biblioteche e i libri di storia. Chi dice che la Chiesa romana fu la causa di una mancata o ritardata unificazione. Però, la Chiesa per secoli rappresentò un substrato unificante molto radicato, un collante che non si può ignorare. D’altra parte la latinità, o meglio: la romanità, morì di vecchiaia e non a causa della Chiesa romana. Molte componenti della vita dei cristiani dei primi secoli dopo Cristo, si potrebbe dire: costumi e componenti di fede, sono di indubbia radice dello stoicismo romano, almeno fino a Marc’Aurelio, e penetrò così profondamente l’anima cristiana da rendere evidente l’eredità. Si potrebbe persino considerare che senza la contrapposizione del potere della Chiesa noi oggi saremmo i tedeschi di periferia dell’impero degli Ottoni e degli Svevi. Altri sostiene che le invasioni barbariche non determinarono solo la decadenza e poi la scomparsa dell’impero romano come entità politica e amministrativa e ciò è vero. Le genti italiche si ritirarono nei castelli feudali nel tentativo di sopravvivere alle incursioni dei predatori del Nord e dell’est d’Europa. Ma, poi venne l’anno mille e la vita cambiò rotta. Le città si popolarono e divennero comuni liberi. Se la libertà è l’anima della nazione, allora si può ritenere che l’Italia scoprì una libertà nuova e in alcune manifestazioni persino democratica. Da allora, quanti secoli! E non sono mancati né il tempo né le esperienze per recuperare il terreno perduto. E venne il Fascismo, propositore di stili neoromanici e richiami a un passato molto lontano, mentre avrebbe potuto ricollegarsi più incisivamente al Risorgimento, non sottovalutando che la natura dell’italiano è più affascinata da Garibaldi che da immedagliati e pomposi Marescialli d’Italia, i più distanti da quel Cincinnato, ideale dei comandanti romani. Il Risorgimento italiano, coerentemente con il movimento europeo rivalutatore della storia, nazionalista ma non sciovinista, è stato anche un ponte con la romanità, a cui si rifaceva per motivare il risorgere di un popolo, come ben testimonia la meta della Roma dei Cesari, capitale di una nuova Italia. Indubbiamente gli eroi del Ventennio: i Marconi della radio, i Balbo delle trasvolate atlantiche, le gonfiature esteriori e tribunizie di Mussolini, non furono prive di un effetto collante, ma poi venne una guerra mondiale, che diede la misura del poltronismo di generali incapaci e ammiragli di terraferma, ma anche di atti di eroismo individuale, che possiamo sintetizzare nell’esempio di quegli arditi d’acqua che a cavalcioni di siluri o di barchini esplosivi si lanciarono contro navi inglesi nel Mediterraneo o di terra, come i ragazzi di Bir el Gobi e di el Alamein, armati solo di bombe a mano contro i corazzati inglesi.

Ma il segno più significativo si può vedere nel sacrario di Redipuglia, con tutte quelle tombe di tanti Salvatore e Pasquale in coabitazione con i Battista, i Giuanìn e i Toni. Morirono insieme perché erano un popolo, non una popolazione. Ignorarlo è negare la nazione e i valori in essa connaturati, che non sono solo oggettivi, ma prima ancora soggettivi, perché affondano nella coscienza e nella morale di chi si sente avvinto dalle peculiarità di uno spirito comunitario.

Allora, perché gl’italiani sono quel che sono? Io dico: perché sono diventati quel che sono? E qui il mio pensiero diventa un’accusa: perché nel ’45 l’Italia soffrì la guerra civile, che divise gli italiani e quella divisione non si è ancora composta. Semmai c’è da chiedersi: perché non si è composta? Perché nessuna delle due parti ebbe il coraggio di riconoscere la reciprocità di talune ragioni non infondate e dei valori morali, che erano la base delle rispettive scelte, giuste o sbagliate che fossero. Molti tartufi si adeguarono al nuovo corso come prima avevano fatto con il Fascismo, perché per dirla con Longanesi “tenevano e tengono famiglia”. Altri si chiusero in un doloroso silenzio e, incapaci di scendere a compromessi, preferirono ritenersi esiliati in patria. È pur vero, perché naturale, che la storia la scrive il vincitore, come scrisse Niccolò Rodolico [10] ben prima di Carl Schmitt, ma non è naturale che dopo cinquant’anni la storia ritengano di doverla fare sempre e solo i vincitori indigeni di una guerra perduta da tutti. La cosa pubblica è diventata feudo e vassallaggio di pseudovincitori (quelli veri morirono!) e ora dei loro figli e nipoti, che hanno ereditato il DNA dell’opportunismo e del vuoto di valori, trasformando la politica da servizio a potere e denaro.

C’è anche da chiedersi: che ha fatto la Chiesa per sanare una ferita rimasta aperta? Ha celebrato, i 25 aprile, messe più di esaltazione e benedizione che di suffragio. Per gli altri no, non perché non siano morti, ma perché essendo del partito degli sconfitti sono troppo morti. Abbiamo sentito un Papa chiedere scuse a destra e a manca, che, anche se moralmente apprezzabili, sono contraddizioni con la immodificabile storia; scuse per i popoli americani invasi da Cristoforo Colombo e per tutta una serie di altri fatti in cui la Chiesa sente di aver avuto responsabilità. Non si è mai sentita una scusa per aver dimenticato i morti sconfitti nella cosiddetta “Liberazione”. Ma c’era da aspettarselo, visto che si è dimenticata persino dei suoi preti trucidati nel triangolo di Reggio Emilia! Una nazione si fonda anche sul pregare in comune su “tutte” le tombe, perché le tombe rendono eguali i loro ospiti. Niente è più comune della morte. Niente unifica più della morte. Pregare per tutti, senza bandiere da Palio di Siena, perché la bandiera è una sola, quella che sventolò per prima nel 1795 a Bologna agitata dagli studenti.

I preti hanno benedetto la cancellazione del latino, persino colpevolizzando quelli che coltivavano il senso, anzi il dovere della tradizione e della memoria; hanno sostituito i canti gregoriani con ballate da chitarre del Far West; hanno demolito artistiche balaustre su cui si erano inginocchiati da secoli i padri e venduto arredi sacri di risalente memoria; in nome di una sterile ostpolitik hanno coperto di oblio uomini coraggiosi come Mindszenty, Stepinac e altri; hanno ridotto le Parrocchie a dipartimenti amministrativi. Così hanno affrettato il processo di secolarizzazione. Hanno svuotato le chiese e il vuoto ha colpito anche la nazione, dimenticando che le chiese sono di tutti: di quelli che credono e di quelli che non credono. Un ateo meravigliato davanti a un tempio scioglie inconsciamente il suo stupore in preghiera.

Ecco perché gli italiani di oggi sono quello che sono e si affrettano nella cabina elettorale a eleggere governanti, che se ne impipano di loro; salvo piangere il giorno dopo, perché toccati nel portafoglio.

Solo il portafoglio, anzi il portfolio, conta.

Ma da chi pensa di far difendere i propri fondamentali valori la Chiesa? Dai neomarxisti che per un gruzzolo di voti elettorali sono pronti a proclamarsi cattolici?

Per fare un popolo e quindi una nazione ci vuole quel substrato che Cicerone chiamava l’idem sentire. E dove sta questo, oggi? Nel primo Dopoguerra l’instaurazione della democrazia fu animata da uomini che, pur da posizioni avverse, credevano in certi valori. La Democrazia Cristiana, ma anche altri partiti, espressero uomini onesti, che, pur perseguendo il potere, almeno lo intendevano come servizio alla comunità (non dico: nazione). Ma la sete di governo e di sottobosco presto cancellò lo spirito di servizio e il potere rimase fine a se stesso e, in via crescente, strumento per il potentato economico. Nacquero negli anni Cinquanta-Sessanta le correnti, i manuali Cencelli, la spartizione della torta nazionale con buona pace della tanto predicata, a parole, democrazia. E gli italiani? Ritornarono e rimangono al “Franza o Spagna, purché se magna”! Non che siano mancati gli onesti: solo che furono emarginati. Ma dove vai se una tessera non ce l’hai? Era ed è più o meno la richiesta del giuramento pretesa dal Fascismo. Ma, come allora, i Martinetti [11] furono e sono pochi! Oggi poi, in epoca di transumanza, come dice Verrecchia, sembrano spariti del tutto. Lo vedete il tal parlamentare? Ebbene, sarebbe capace di definire quella santa donna di sua madre una prostituta, pur di mantenere una cadréga. Non conta più nemmeno il partito e la coerenza che richiede la sua appartenenza.

E che fine ha fatto la nazione? È a questa domanda che bisogna dare risposta. Ce lo dimostra il calcio, che è una forza aggregante. Ma, possono mai essere ritenuti valori una bisca di giocatori strapagati e arbitri di calcio corrotti? Anzi, è un disvalore. Sicché noi abbiamo una nazione fondata su disvalori! È nazione questa?

Chi ha fede o semplicemente fiducia, si chiede: da dove dobbiamo ripartire, perché gli italiani non siano quelli che sono, ma quelli che dovrebbero essere?

La risposta potrebbe essere semplice: dobbiamo ripartire da dove ci siamo fermati, dal nostro passato visto senza vuota retorica, ricordando che una pianta senza radici è solo un tronco, che non può dare né frutti né ombra. Bisogna ripartire dalla scuola, perché è sui suoi banchi che si crea l’orgoglio del nostro essere nazione. Ma la scuola deve essere libera e per essere tale deve avere insegnanti liberi, non indottrinati, che allenino le menti all’analisi critica costruttiva, all’apprezzamento dei valori della vita e al sacrificio di ciò che comporta il possibile e non i vacui sogni destinati a convertirsi in vuoto esistenziale. La scuola è diventata in Italia un laboratorio di sperimentazioni bizzarre, che ogni ministro si sente in diritto di proporre e di imporre. Impariamo la lezione di Giovanni Gentile, che vide la filosofia convertirsi in pedagogia, ben sapendo che la scuola è la palestra dell’interpretazione dei valori; ma non imitiamolo, perché, se oggi abbiamo una scuola sbagliata è proprio perché è prevalentemente “di Stato”, cioè di chi detiene il potere politico. E i risultati si vedono, soprattutto se la “storia la scrive il vincitore… delle elezioni”.

Comunque si voglia intendere la realizzazione di questo principio fondamentale, è un fatto incontrovertibile che più l’età scolare è tenera e più la mente è ricettiva di principi e di esempi e allora: l’orgoglio delle proprie radici e della propria identità, lo troviamo nella scuola o nelle discoteche? Tutti risponderebbero: nella scuola! Ma a chi la affidiamo? A insegnanti cubiste o, se un po’ più attempate, malmaritate? A docenti pederasti o pedofili, come la cronaca quotidiana ci informa? Non generalizziamo, ma nemmeno comportiamoci come le tre scimmiette della favola.

L’orgoglio può essere un vizio, ma se riguarda la vita civile e la dignità di un popolo, è un dovere.

 

Pietro Bonazza


[1] A. Verrecchia, Giuseppe Prezzolini. L’eretico dello spirito italiano, Cap. “Il demolitore”, Fogola Editore, Torino, 1995.

[2] Le vite dei Cesari, libro I, cap. LVII.

[3] Sabatino Moscati, Così nacque l’Italia.

[4] Divina Commedia, Inferno, XXXIII, 80.

[5] Convivio.

[6] Epistole metriche, III, 24.

[7] Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani.

[8] Ricordi. Opere varie.

[9] Genesi e struttura della società, VI, 2.

[10] Prefazione ai Ciompi.

[11] Piero Martinetti è il filosofo metafisico che nel 1931, con 10 accademici, alcuni con scarso merito perché in procinto di quiescenza, rifiutò il giuramento di fedeltà al fascismo, perdendo, nello stesso anno, la cattedra di “filosofia teoretica” all’Università di Milano. Si ritirò a Spineto, nel Canavese ai piedi delle Alpi, a vivere e scrivere in solitudine. Si deve ricordare, tra le sue opere, un “Breviario spirituale”, che la casa editrice UTET di Torino, su sollecitazione di Anacleto Verrecchia, che ne ha scritto una pregnante prefazione, ha ristampato nel 2006. La prima edizione avvenne nel 1923 con autore anonimo. Si deve anche ricordare che Martinetti accompagnò il rifiuto di giuramento con una nobilissima lettera. Persino Mussolini manifestò stima al nostro filosofo, che, però, con dignità rifiutò ogni vantaggio, pago della irrinunciabile libertà.