La mancanza di senso dell’umorismo provoca per reazione un eccesso di senso del ridicolo. Questa constatazione, se corretta, spiega perché gli italiani, eredi del dottor Balanzone, fuori moda sul piano scientifico, ma convinti di saper inventare sempre nuove formule politiche, che il grande Machiavelli ascolterebbe con il suo stroncante sorriso, discettino pervicacemente su quale capitalismo darsi: se anglosassone o tedesco, pur non avendo ancora risolto i problemi istituzionali e strutturali, che ne sono indispensabile premessa. Non è disfattismo, anzi, è solo incapacità di risolvere un enigma, che sarebbe degno di Edipo, se il Belpaese del melodramma non evocasse, invece, Turandot. Infatti, come spiegare il fenomeno di 60 milioni di anime, che riescono a essere: un popolo, nonostante i campanilismi; una nazione, pur senza costumi, secondo Leopardi; uno stato, nonostante lo sforzo dei politici di sfasciarlo; un’economia, nonostante la finanza pubblica e le leggi finanziarie? Eppure, tutto ciò esiste ed è inspiegabile, come i miracoli. Ma, in fondo, la domanda: “quale capitalismo darci” è solo retorica, perché la risposta è nota: non vogliamo darci alcun capitalismo, perché la scelta ci porterebbe all’essenza, mentre noi siamo un popolo di esistenzialisti, che rifiutano scegliere. La scelta implica sempre la rinuncia di ciò che si scarta e noi vogliamo tenerci tutto, perché dentro le nostre contraddizioni siamo ingrassati e ci illudiamo di continuare a farlo. Noi non scartiamo nulla, come dimostrano tutti i “rieccoli” in lizza per le prossime elezioni. Scambiamo i vecchi con i giovani, la Quaresima con il Carnevale, le elezioni con le votazioni delle canzonette di Sanremo. Petrolini era l’emblema dell’Italia dell’altro ieri, Totò e Sordi di ieri. Oggi la televisione dice di fare satira politica. Che cos’è?