Corte di cassazione e abuso del diritto

In una rinuncia al credito (rimessione di debito) dall’impresa A all’impresa B, la Commissione Regionale di Milano ha ritenuto esistere evasione d’imposta e ha negato la detraibilità della minusvalenza dal reddito imponibile, argomentando sulla base di una valutazione di merito dei fatti recati in un verbale della Guardia di Finanza. La Corte di Cassazione, 20 luglio 2012, n. 12622, ha confermato la sentenza di secondo grado, ma correggendone la motivazione nella qualificazione dell’atto del contribuente: da evasione in elusione.

Il caso esaminato è complesso, sia perché i confini tra evasione ed elusione, che in concreto non sono sempre facili da identificare sia perché il caso è costituito da almeno due componenti, che si intersecano e sovrappongono; se ci si ferma ad una lettura superficiale, c’è il rischio di cadere nell’errore di generalizzare una fattispecie particolare.

Innanzi tutto si osserva che la rinuncia al credito, nel caso de quo, non rientra nell’art. 101 TUIR, che si riferisce alle perdite di crediti rientranti nell’attività dell’impresa. Pertanto, non è possibile estendere la sentenza a tutti i casi di rimessione del debito o rinuncia al credito, perché anche nel caso dell’art. 101 bisogna comunque fornire la prova della esistenza “di elementi certi e precisi”, che giustifichino la scelta del creditore-imprenditore di agire, pur nel rispetto della sua libertà gestionale, secondo i principi di inerenza e di economicità della gestione normale. Il caso esaminato riguardava un credito collegato al prezzo di cessione di una partecipazione in un contesto di più operazioni articolate e di non facile giustificazione. Da qui la correzione, stabilita dal giudice della scelta dell’imprenditore da evasiva ad elusiva rientrante nei termini dell’art. 37-bis, DPR 600/1973.

La correzione non porta ad alcuna differenza sostanziale per l’imprenditore, che, con quella rimessione, ha ridotto il proprio reddito imponibile, perché vi sia stata evasione o elusione, il risultato ai fini dell’accertamento del reddito imponibile non cambierebbe, salvi, eventualmente, altri effetti, come, per esempio, quelli relativi ad aspetti penali.

Semmai, la parte più interessante della sentenza è quella che riguarda la motivazione.

La sentenza della Corte suggerisce alcune riflessioni, che si elencano brevemente al solo fine di stimolare approfondimenti:

  1. se la Corte di cassazione ha qualificato correttamente il fatto come elusivo, significa che la Regionale milanese ha preso un abbaglio, perché non si possono confondere evasione ed elusione, a meno di ritenere che il confine tra i due comportamenti sia così labile da giustificare l’equivoco. Se, invece, in base agli atti, si è trattato di evasione, allora l’abbaglio l’ha preso la Cassazione: tertium non datur. Secondo consolidata dottrina e giurisprudenza si ha evasione quando vi è sottrazione od occultamento di materia imponibile per scansare illegalmente accertamento e pagamento dei tributi, mentre l’elusione è l’uso di strumenti giuridici legittimi, che consentirebbero al contribuente un onere fiscale minore: in altre parole, il contribuente è forzato, contro logica, ma anche contro diritto, a scegliere la via che lo penalizza;
  2. 2.                la Cassazione, che, incentrando la propria motivazione in riferimento all’art.37-bis, DPR 600, non aveva bisogno d’altro, ricorre all’abusato “abuso del diritto”, enfatizzato da giurisprudenza della Corte di Giustizia europea e, a prescindere, dichiarato immanente nel nostro ordinamento (Cass. n. 1372, infra), che lo applica spesso contro l’imprenditore, ignorando quanti abusi del diritto compie quotidianamente il Fisco. Abuso del diritto ed elusione non sono lo stesso fenomeno e si potrebbe persino dimostrare che sono incompatibili tra di loro, a parte la considerazione preliminare che “abuso del diritto” è una contradictio in terminis. Nella sentenza n. 12622 la Cassazione scrive: «l’abuso del diritto consiste nel conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione di strumenti giuridici idonei ad ottenere un’agevolazione o un risparmio d’imposta». Se leggiamo attentamente il comma 1 dell’art. 37-bis DPR 600/1973, constatiamo che questa è la definizione di elusione fiscale nei casi tassativamente previsti dall’articolo stesso. In sostanza, secondo la Cassazione si può scrivere “abuso del diritto”=”elusione fiscale”, il che non sarebbe, in sé, insopportabile, se la conclusione fosse che l’art. 37-bis non venga fagocitato dal più ampio, indeterminato e flessibile abuso del diritto usato come grimaldello per scardinare l’art. 37-bis e la sua tassatività ai soli casi previsti dal terzo comma — e sono già tanti — e, allora, sarebbe come darla per abrogata. Con la cennata apparente equivalenza si realizza in realtà un assorbimento con soppressione, una specie di fusione per incorporazione. Così è giustificabile il sospetto che la Cassazione fosse ben consapevole della forzatura, ma intenda superare la tassatività dei casi previsti dalla norma, in altri termini la si è cestinata per sostituirla con una più elastica costruzione giurisprudenziale incentrata sui principi che il giudice può costruirsi facendoli passare come “immanenti” nell’ordinamento. Questo aggettivo “immanente” ci porta all’immanentismo giuridico, in cui si scivola dal diritto positivo al diritto implicito. Ma la confusione (rectius: fusione) tra abuso e art. 37-bis (elusione) apre un problema di prova e soprattutto sulla relativa incombenza. L’art. 37-bis è una norma articolata, ma organica e coerente, oltre alla sua applicabilità ai soli casi tassativamente stabiliti, e prevede un’attività preliminare e dialettica tra Amministrazione e contribuente ritenuto elusore e solo dopo il suo esaurimento può essere emanato un accertamento da essere “specificamente motivato a pena di nullità” (comma 5), ma, comunque, con le attenzioni e la prudenza ben imposti dalla sentenza Cass. 21 gennaio 2011, n. 1372, mentre altrettanto non può dirsi per l’abuso del diritto, che nella sua immanenza è anche privo di guarentigie specifiche a favore del presunto abusante, consentendo elasticità interpretative e applicative spesso a vantaggio solo dell’Amministrazione finanziaria. La sentenza n. 1372 si distingue anche per un’affermazione che, pur nella sua evidenza e accettabilità, pone seri dubbi sulla sua validità costituzionale. La sentenza rileva, imponendo al Fisco una particolare attenzione, che la scelta tra soluzioni possibili, riconducibili alle due categorie basilari del comma 1 dell’art. 37-bis: valide ragioni economiche e risparmio d’imposta, sia da valutare diversamente per i gruppi di imprese e per gli altri imprenditori ordinari. Ammesso che questa particolarità possa essere accettabile sul piano economico, resta evidente che una tale distinzione pone seri problemi di sostenibilità in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione.

3.         Ultimamente la Cassazione deve esserci accorta che la giurisprudenza stava avallando un abuso dell’abuso e con sentenza 14 gennaio 2015, n. 405 sembra aver corretto il tiro, rovesciando il concetto “art. 37-bis abolito per assorbimento nell’abuso del diritto” ad “abuso del diritto inapplicabile dove opera l’art. 37-bis”, che conserva la sua esclusività e unicità ai casi previsti al terzo comma di questa norma.

È già un avanzamento verso il rispetto dell’autonomia tra norme in attesa di una riforma organica, che spetta al legislatore.