Riduzione del numero di amministratori al fine di espulsione

 

 Un postulato fondamentale del diritto delle società di capitali è il principio maggioritario del Libro V, Capo V, cod. civ. ed è stato sostanzialmente e formalmente confermato dalla riforma del D.Lgs.  n. 6/2003 e successive modifiche e integrazioni. In sintesi il principio prevede che i voti si contano e nello stesso senso pesano, talché ciò che esce approvato o respinto della maggioranza assembleare diventa la volontà espressa dall’ente secondo il gioco dialettico dei voti dei soci. Ovviamente tutto a condizione che siano rispettate le norme di legge e di statuto, diversamente e a certe condizioni, esiste l’istituto della impuntiva che può travolgere la deliberazione per nullità o annullabilità secondo la gravità della patologia dell’atto.

Questo è il quadro generale e preliminare, che la giurisprudenza ha confermato da tempo, con sentenze di varie corti e diversi gradi, che, esaminando casi concreti hanno dovuto riempire vuoti legislativi, con ricorso ai principi generali e applicazioni dei canoni esegetici dell’art. 12 delle Preleggi. I risultati possono essere o no soddisfacenti ed è prudente non assolutizzarli con generalizzazioni, che potrebbero essere forzature  oltre i limiti della logica giuridica.

In particolare, la giurisprudenza ha affermato che è diritto della maggioranza ridurre il numero degli amministrazione ed espellere, come risultato finale e anche in corso di triennio, amministratori espressione della minoranza, si siano o no posti in contrasto dialettico con la maggioranza e dialetticamente in contrasto con i membri espressi dalla maggioranza, ai quali non intendano subordinarsi, ancorché il loro comportamento e le loro proposte e decisioni siano oggettivamente valide, mentre gli amministratori della maggioranza, in molti casi potrebbero perseguire finalità con del tutto coerenti con il miglior interesse della società, ma, piuttosto, in favore nell’interesse di chi li ha nominati.

La Corte di Cassazione nella sentenza19 novembre 2008, n. 27512, considera la riduzione del numero degli amministratori come una revoca di quelli esclusi e offre come rimedio “il risarcimento del danno se avvenuto con o senza giusta causa”; il che è ben magra consolazione, perché sul piano pratico è il danneggiato che deve fornire le prove del danno in costanza di violazione della giusta causa, cosa già di per sé tutt’altro che facile, e sul piano teorico perché rovescia sulla prova una violazione di un principio.

A prescindere da queste considerazioni, si deve rilevare che restano non esaminati in giurisprudenza, tre fenomeni:

a)      i rapporti tra il citato principio generale e il voto di  lista statutariamente previsto;

b)      le conseguenze concrete con l’immissione, ma si potrebbe dire l’intrusione, nel nostro sistema del voto plurimo avvenuto con D.L. 24 giugno 2014, n.91;

c)      la ricaduta sui patti parasociali, che con il D.Lgs. n. 6/2003 hanno avuto riconoscimento nell’art. 2341-bis cod. civ.

Sul punto a) sembra, a  un primo esame, non esservi  un divieto per la maggioranza di deliberare una riduzione del numero di amministratori, ma bisognerebbe distinguere tra una previsione generica in statuto del voto di lista e una norma statutaria in cui è regolato tale voto  in esplicito collegamento con il numero di amministratori da eleggere. Sembra logico che, almeno in questo caso, prima di far deliberare dall’assemblea ordinaria la riduzione del numero di amministratori, sia necessario, a pena di invalidità, deliberare in sede straordinaria la modifica dello statuto, a prescindere dalla tutela di un risarcimento di danno per chi viene espulso, perché questa possibilità attiene agli interessi personali di questi, mentre la violazione dello statuto riguarda il generale e superiore interesse della società. Si osserva anche che l’affermazione giurisprudenziale di una possibilità di tutela, ma mediante una causa per danni è, di conseguenza, conferma della legittimità di una delibera ordinaria di riduzione del numero. Tuttavia, se così fosse, anche nel caso di un esplicito numero fisso di amministratori previsto nel voto di lista, tenuto conto dell’art. 2380-bis, comma 3, cod. civ., la tutela potrebbe allargarsi autonomamente ai soci di minoranza mediante il diritto di recesso ex art. 2437, lett. g), cod. civ. e nonostante una preventiva delibera di assemblea straordinaria.

Sul punto b), eventuali conflitti tra modificazione del numero di amministratori e alterazione della base dei rapporti tra soci di maggioranza e di minoranza, escluso il caso di norme statutarie istituite nel momento costitutivo della società, è stata risolta dallo stesso legislatore, che ha previsto espressamente, in coerenza con il novellato art. 2351 cod. civ., il diritto di recesso ex art. 2437 cod. civ. (vedi caso Fiat-Olanda). Il recesso potrebbe essere un deterrente rilevante, perché inciderebbe direttamente sulle risorse patrimoniali e finanziarie della società e non tutte le maggioranze costruite sulla introduzione del voto plurimo potrebbero permetterselo.

Sul punto c) le conseguenze di una riduzione del numero di amministratori con espulsione(i) di amministratore(i) espresso(i) dalla minoranza secondo il patto parasociale ex art. 2341-bis, cod. civ., in particolare, sul punto che qui interessa, quando è in questione il diritto della minoranza insito nella partecipazione al prepattuito “governo della società” e reso noto a sensi dell’art. 2341-ter cod. civ.. Si potrebbe sintetizzare il tutto nel principio generale del nostro ordinamento: “pacta sunt servanda”, la cui violazione può comportare, secondo i casi, o l’invalidità di deliberazioni assunte in vigenza del patto parasociale, oppure in una causa per danni intentata dalla minoranza.