Carlo Goldoni scrisse una commedia dal titolo: La Donna di garbo. Donna, non uomo, al quale ne riservò altra con il diverso titolo: L’uomo di mondo. Non si sa se, per esclusione, Goldoni considerasse che il maschio, nell’epoca dei garbati cicisbei, non potesse avere garbo, ma solo mondanità. Di donne mondane ne esistevano anche all’epoca e di ogni livello: dai tuguri di Parigi alle favorite del Re Cattolico nelle alcove di Versailles, per non parlare delle prostitute della decadente Venezia, che, scrive Montesquieu in visita alla città nel 1728, è un solo grande cazin. Si potrebbe concludere che Goldoni non si è curato di questi distinguo. Però, quando videoleggo Vittorio Sgarbi (imperversa in TV e scrive tutti i giorni un pezzo giornalistico), mi ricordo del mite Goldoni, se non altro per contrapposizione. Il nostro sciupafemmine ha inventato un modo nuovo, indubbiamente efficace, di colloquiare con il suo pubblico (suo, perché Sgarbi non ha elettori, ma fans), molto aiutato dal pallore romantico, da un atteggiamento naturalmente dannunziano e dal gesto mai meccanico della mano destra che ravvia la chioma scivolante. Interpreta la politica attraverso l’estetica e rende questa un fatto politico. Nel suo quotidiano savonaroleggiare riesce a praticare in modo molto personale l’insulto gridato, personale al punto da aver inventato un personaggio: appunto Vittorio Sgarbi, che è la maschera di se stesso. Qual è quello vero? Ormai non lo sa più nemmeno lui. È il gemello di se stesso, il suo Menecmo, il personaggio che ha trovato il suo autore. E le donne, come per Gabriele, ne vanno pazze e sgomitano per arricchire la sua collana. Desiderano, vogliono, pretendono di far parte, almeno per un fugace attimo galeotto, della sua scuderia. Loro sono donne di garbo e lui uomo di mondo! O meglio loro sono donne di mondo e lui uomo di sgarbo. Nonostante i belli vadano d’accordo, una cosa non mi riesce di immaginare: l’esito di un suo rapporto con la ministra Melandri. Esito… per la cultura. Ovviamente!