Il fallimento della politica economica della Grecia, di per sé non un grande fenomeno, sia perché già noto al momento della ammissione di quel paese a una Ue in preda all’ideologia idiota e autodistruttiva dell’embrasson nous sia perché basterebbe tagliare i rami secchi come insegnano i bravi contadini, ha avuto almeno il pregio di svegliare l’autocritica di altri paesi non proprio virtuosi. L’Italia dei Prodi e dei Ciampi che tanto brigò, anche sui conti, per la sua ammissione, si ritrova oggi a fare i conti con il suo debito pubblico, ma soprattutto con le fameliche bocche dell’intera classe politica, di burocrati e magistrati che non intendono rinunciare a privilegi consolidati e dilaganti.

Non credo che il ministro dell’economia non abbia tenuto in adeguata considerazione la forza delle resistenze, ma, di fronte alla necessità di non fare la fine della Grecia e di governare il debito pubblico, non potendo avvalersi della leva tributaria già al massimo della pressione, non abbia potuto far altro che “tentare” la riduzione della spesa: a) per stipendi pubblici, erogazioni a partiti, magistrati, boiardi e manager; b) con soppressione di enti inutili, fioriti all’ombra di governanti generosi con i soldi pubblici; c) soppressione di costose provincie sproporzionate alla loro popolazione; d) con innalzamento dell’età pensionabile. Il tutto integrato con l’annuncio di un rafforzamento della lotta all’evasione.

Subito si aperta la guerriglia della resistenza delle varie caste, che con ipocrita eufemismo chiamano “dibattito” e che in parallelo è affiancato da una lotta sotterranea delle lobby e delle forze politiche trasversali. E anche il Presidente della Repubblica già anticipa il suo giudizio, magari solo con aristocratica smorfia, ma di facile interpretazione.

Che cosa resterà alla fine non è facile immaginare, ma si prospettano stravolgimenti che possono vanificare il senso della “manovra”, che manovra non è, ma, semmai, la tardiva attuazione di impegni elettorali dell’attuale compagine governativa, in ritardo di tre anni su ciò che doveva essere realizzato da tempo. Sulla “manovra” si distinguono due figure: il premier, che da qualche tempo sembra il Mont Ventoux e non si è reso conto che l’ottimismo può diventare alla lunga una moneta inflazionata, che poi nessuno vuol tenere e per disfarsene aumenta la velocità di circolazione con incremento dell’inflazione stessa. Vantarsi, poi, di “non aver messo le mani nelle tasche degli italiani” è uno slogan che dimostra debolezza e fa la figura dell’augusto (in termini circensi). L’altra figura è il ministro dell’economia, che non enfatizza e si trincera dietro l’inevitabilità della sua proposta. Dei due il più forte è attualmente il secondo, non tanto per virtù propria (in termini circensi un “bianco”), quanto perché ha l’appoggio di Bossi, che oggi fa il direttore del circo e può permettersi di imporre tanti bianchi ad altrettanti augusti. Con tutto il rispetto, sembra di essere al “Festival del Circo di Montecarlo”.

Si dubita che la manovra di 25 miliardi possa riuscire pur dopo tagli e rinvii. Ma, comunque vada, ben oltre gli aspetti economici e la ricaduta sulla dimensione del debito pubblico, si devono fare considerazioni di carattere politico:

  1. qual è il vero obiettivo della condizionante Lega? A parole sembra il federalismo. Ma Bossi in sostanza sembra spostare il suo bersaglio. Non solo accaparrare quante più poltrone può in regione, ma anche dicasteri pesanti nella capitale. Del risanamento delle finanze pubbliche non sembra importargli molto, certo non più che collocare un figlio “trota” e difendere le cadreghe verdi nelle province, per il semplice motivo che pensa che per proseguire la sua marcia su Roma ha bisogno di uomini, a costo di dimenticare i voti, e gli uomini da mandare in prima linea li trova in periferia nei consigli comunali e provinciali. Questo potrebbe essere il suo errore, perché i successi nelle recenti consultazioni elettorali sono voti protestatari e qualunquistici di piccoli borghesi stanchi di essere menati per il naso dai partiti tradizionali. Bossi incarna un po’ in senso moderno, l’ubriacatura della “democrazia assoluta”, che, però, non può reggersi sulle trecentomila doppiette padane;
  2. il PDL sgoverna e dimostra nella sua inconcludenza che non basta avere maggioranze significative in Parlamento. Berlusconi sconta la mancanza di un vero background  politico e culturale. Non ha capito che continuare a fare il martire, alla fine stanca lui e i suoi simpatizzanti. La sua formazione politica è un esempio di “anarchia governante”;
  3. l’opposizione sembra una compagnia di comici del Teatro dell’Arte, che, però, non sanno più nemmeno leggere il canovaccio. I fan non ridono più. Al massimo si accontentano di nostalgie e, illudendosi di recuperare il terreno perduto, fanno l’occhiolino persino agli iman, i quali hanno altri interessi.  Ma questa è roba da marciapiede.

E noi che possiamo fare? Urge parafrasare il titolo di un famoso romanzo di Cronin “E le stelle stanno a guardare”; ma se siamo ridotti in mutande non siamo più stelle, anche se viviamo sotto lo “Stellone d’Italia”.