Anacleto Verrecchia, germanista, letterato e filosofo atipico, non accademico per scelta, specialista del pensiero di Giordano Bruno, Lichtenberg e Schopenhauer, ha ripescato taccuini di viaggi dal 1967 al 2003 e ne ha tratto un primo libro, che il ricercato editore torinese Fogola pubblica col titolo “Vagabondaggi culturali”. Verrecchia ha girato mezzo mondo, ma soprattutto nei paesi europei, africani e asiatici, parte di quell’impero romano, la cui civiltà è alla base della nostra. Di quei viaggi riporta impressioni e giudizi che vanno dalla natura ai costumi, dai reperti archeologici agli alberghi. Ma i “Vagabondaggi” non sono una guida turistica, bensì una rivisitazione della classicità, anche perché le vestigia stimolano continuamente spunti culturali espressi in un italiano perfetto, scarno, talvolta sufureo, sempre piacevolissimo. L’autore non scivola mai nella erudizione e nei “Vagabondaggi” domina il rammarico per la viltà del presente (“siamo passati dalla cultura dei Cesari a quella di Asterix“) e per la caduta della passione (“le passioni sono il carburante dello spirito. Senza il turbinio delle passioni non si combina niente“), che sollecitano il lettore a una ricerca del mondo perduto, che per lui è ricerca di pietre, perché “le pietre parlano” ai posteri e ci riportano nel mondo della storia che rappresentano. Ma, nei “Vagabondaggi” sarebbe meglio dire che Verrecchia interroga le pietre e svela la pietas nascosta. C’è qualcosa di religioso in questa recherche, che trova nella commozione e nella capacità di meraviglia gli stimoli che accendono una cultura sedimentata in anni di studi dal mondo antico al moderno. Basta leggere le pagine dei viaggi in Romania e in Spagna per capire che alla fine non è Mamaia né Siviglia che importano, ma la restituzione alla nostra immaginazione delle figure dolenti del deportato Ovidio e del disgraziato Cervantes. Verrecchia è sì uomo spiritoso, ma se si guarda alle figure predilette: Licthenberg, Schopenhauer, Giordano Bruno, il più sventurato di tutti, si capisce il nascosto pessimismo, la comprensione dei vinti, suoi compagni spirituali di viaggio. I “Vagabondaggi” ricordano le esperienze dei grandi viaggiatori tedeschi in Italia dell’800: Schopenhauer, Goethe, Mommsen. Ma è un’affinità solo apparente. Verrecchia non è mai viaggiatore, ma visitatore (non apostolico, molto romano) e questa è la cifra del suo libro, che merita lettura per affrancarci dalla banalità, dalla superficialità e dal conformismo del presente insensibile al bello, non solo nelle masse gaudenti del turismo low cost, ma anche nei cosiddetti intellettuali organici, che, al massimo hanno un po’ di intelletto, ma niente di anima. Peraltro, non è nemmeno questione di profonda cultura classica, perché le vestigia possono stimolare chiunque sia ancora in grado di provare la commozione della meraviglia. E lì che, lontano da vuote accademie, la filosofia diventa saggezza e si invera.

 

Pietro Bonazza