Pietro Bonazza

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GIUDIZIO DI OMOLOGAZIONE E FUNZIONE DEL CAPITALE SOCIALE NELLE SOCIETA’ DI PERSONE

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(articolo pubblicato nella rivista “Il diritto fallimentare”, 1990, n. 4-5, a commento del decreto della Corte di Appello di Brescia, 30 marzo 1990, che ha così stabilito:

«Non è omologabile la trasformazione ex art. 2447 cod. civ. in una società in nome collettivo di una società a responsabilità limitata, le cui passività siano notevolmente superiori al capitale, senza che si proceda contestualmente ad una idonea ricapitalizzazione »

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1 – MOTIVI e DECISIONE

La Corte bresciana, nel decreto che qui si commenta, ha affrontato un tema privo di precedenti editi, forse anche perché la pratica lo risolve, in genere, in modo diverso, ma la scioltezza della decisione non riesce a nascondere lo sforzo del giurista per motivare una conclu­sione scontata solo se vengono poste talune premesse. Il lettore finisce per essere affascinato più da queste che dalla decisione in sé, che ha pregio per gli stimoli in­dotti e per il rimbalzo al problema fondamentale dell’interesse pubblico del di­ritto societario. La deci­sione, condivisa o no, lascia il posto ai suoi motivi o me­glio a quel che sta prima della più liturgica ed irrinun­ciabile formula del diritto proces­suale: “P.Q.M.” e non è poco in un mondo nel quale la cul­tura giuridica, soprat­tutto giurisprudenziale, si riduce viepiù ad una meccanica arida casistica, nella quale si tende a cercare soltanto un paradigma per il comodo stru­mento dell’analogia, anziché un riferimento per una nuova deduzione.

Innanzi tutto stimola il ricordo del ‘buon giudice’, che ritenga criterio di amministrazione della giu­stizia, esaminato il caso, stabilire con saggezza una deci­sione, alla quale poi sarebbe sempre possibile adat­tare adeguate motivazioni. Un ribaltamento del criterio de­duttivo, quindi, con il riempimento a posteriori della parte antecedente il P.Q.M., che può sconcertare ed anche preoccupare, per il rischio di errore, in cui può cadere il giurista non consumato. Ma il criterio del ‘buon giudice’, altro non è che quello di Salomone, di Sancio Panza, di Azdak o di qualsiasi magistrato che, per carisma, abbia innato il senso, quasi la direzione della giustizia [1]. Se si adotta questo tipo di pensiero, le motivazioni perdono molto della loro importanza, con disoccupazione del commentatore e grande scandalo della figura di giurista le­gato alla se­quenza non solo logica, ma anche temporale dei vari pas­saggi, per cui la decisione, cioè quel che sta dopo il P.Q.M. è la rigorosa, sillogistica conclusione di una serie di motivi in posizione di premessa, di antecedente.

Il decreto della Corte bresciana può appartenere alla cate­goria dei provvedimenti del ‘buon giudice’. Se ci si chiede se sia da ri­tenere pos­sibile la costituzione di una società con ‘deficit patrimo­niale’, si è portati a rispondere istintivamente in senso negativo, a prescindere dalla forma societaria. Le diffi­coltà sorgono nel dettare i motivi della negazione, quando la forma, come nella fattispecie, è personale.

Questo commento vuol uscire dagli schemi tradizionali e perciò propone al lettore, prima un tentativo di interpre­tazione simulando la omissione dei motivi e poi l’esame critico di quelli scritti.

2 – IPOTESI DI OMISSIONE DI MOTIVI

Tribunale e Corte bresciani hanno negato la possibilità di trasformare in nome collettivo una società di capitali che, avendo sofferto la distruzione del fondo patrimoniale fino all’accumulo di perdite eccedenti, intendeva fare applica­zione letterale dell’ultima parte dell’art. 2447 c.c.

Un lettore, che, leggendo la sola massima, non conosca i motivi delle decisioni in ras­segna, può ipotizzare l’applicazione di due principi comple­mentari e necessari:

– la società, qualsiasi tipo di società, rivestendo un in­teresse di ordine pubblico, deve essere dotata di un capi­tale nominalmente, quindi apparentemente, positivo [2];

– il giudizio di omologazione è complesso: di legittimità e di merito.

Nel nostro ordinamento il diritto societario, emanato in regime corporativo, è anteriore all’art. 41 della Costi­tuzione democratica, ma non vi è mai stato contrasto, per­ché anche un sistema liberal borghese puro ammetterebbe, in astratto, l’interesse della collettività per imprese econo­micamente e patrimonialmente sane. Ma il passaggio dall’astratto al concreto costringe almeno ad una divisione di campo: le imprese con dimensione capitalistica tale da interessare la pubblica fede ed il pubblico risparmio (ove per “pubblico” si intende un riferimento al quisque de po­pulo) con limitazione del rischio al capitale investito da parte del soggetto economico dominus e le altre imprese, in cui il soggetto economico risponde pienamente e perso­nalmente. E’ noto che per le prime l’ordinamento ha messo a disposizione lo strumento della società di capitali, carat­terizzata da una serie organica di norme atte a regolare i rapporti interni ed esterni e da un controllo preventivo di conformità al modello legislativo degli atti fondamentali con susseguente pubblicità, controllo formale e complesso organizzato sullo schema del giudizio collegiale con la presenza dialettica del pubblico ministero tradizionalmente denominato omologazione. Per le seconde, imprese indivi­duali e società di persone, la responsabilità personale ed illimitata ha consentito all’ordinamento di attenuare l’intervento dei pubblici poteri, mantenendo la pubblicità, ma escludendo l’omologazione. Pertanto, le soluzioni non possono essere le stesse per i due campi.

La risposta negativa ad una domanda di costituzione di società di persone, cui va assimilata la trasformazione dalla forma capitalistica, implica, quindi, la generalizza­zione alle società di persone dei principi dettati per le società di capitali ed il potere dell’organo omologante di entrare nel merito della congruità dei mezzi per il rag­giungimento dell’oggetto sociale, non più inteso come scopo dei soci, ma come fine della società in senso politico e collettivo.

Senza entrare in valutazioni ideologiche, senz’altro assenti nelle intenzioni dei giudici bresciani, si può ricordare una progressiva generalizzazione, negli anni settanta e ottanta, della interpretazione pubblicistica del diritto dell’impresa, a cui pare far seguito un qualche ri­flusso nei primi anni novanta. Nella valutazione dei giu­dici più liberi, ma anche più responsabili, non può non aver avuto peso la rammaricata constatazione dello svili­mento degli istituti repressivi e sanzionatori delle viola­zioni delle regole sulla pubblica fede, come il fallimento, da cui il tentativo di potenziare quegli interventi su al­tri fronti, che potessere almeno in parte correggere gli annacquamenti delle pene.

Posti in relazione a questi principi i decreti bre­sciani diventano comprensibili, anche quando non condivisi. Urta, infatti, il comune buon senso che una società, ancor­ché di persone, possa essere proposta al mondo del diritto e dell’economia con una penalizzazione iniziale costituita da un ‘deficit patrimoniale’. Si propone allora un aborto te­rapeutico per evitare un nascituro costoso per la colletti­vità. Per evitare la rupe Tarpea si interviene con provve­dimenti preventivi. Il ‘buon giudice’ ha scritto la de­cisione, ma sarà difficile esporne i motivi.

3 – ANALISI DEI MOTIVI

La Corte bresciana, sollecitata da un ricorso forse non perfettamente dialettico con il decreto di reiezione del primo giudice, ha cura di sottolineare che questi non ha inteso negare il diritto alla trasformazione previsto dall’art. 2447 cod. civ. invece della ricostitu­zione del capitale e, quindi, ammettono Corte e Tribunale, che sia possibile, in applicazione letterale e astratta delle alternative offerte dalla norma, trasformare una so­cietà di capitali in società di persone in presenza di un ‘deficit patrimoniale’ non ripianato. Testualmente si legge nel decreto che l’eccezione dell’omesso ripianamento delle perdite ante­riormente alla trasformazione della società: “… sarebbe agevolmente confutabile in base al rilievo per cui la ridu­zione e ricostruzione del capitale da un lato, e, dall’altro, la trasformazione in società di rango infe­riore sono previste dalla norma citata in via alternativa: onde non sarebbe censurabile l’abbandono del primo rimedio, per affidare esclusivamente al secondo il superamento della si­tuazione creata dall’eccesso di perdite.” Ma, scritto que­sto, il P.Q.M. non poteva che generare un’unica conclu­sione: l’accoglimento del reclamo e la riforma del provve­dimento del Tribunale.

Ma la Corte è andata oltre riconoscendo consenso alla motivazione, solo apparentemente diversa, del Tribunale, secondo cui la misura delle perdite comportava una causa di immediato scioglimento ex art. 2272 cod. civ. L’interpretazione che il giudizio di omologazione sia anche di merito è implicita nel passo ove si legge che: “Nel caso di specie lo stato patri­moniale della società ETA – in una con le risultanze del conto economico dell’ultima gestione – non lascia adito a dubbi in ordine all’impotenza dell’ente collettivo a perse­guire utilmente lo scopo sociale, senza il ricorso ad un robusto ed immediato apporto di nuovi conferimenti…”

Si pongono allora due ipotesi: o in sede interpreta­tiva si deve apportare una integrazione all’art. 2447 c.c., per cui si intenda che la trasformazione soggiace alla con­dizione, non resa esplicita dal legislatore, della esi­stenza comunque di un capitale (è superfluo dire: posi­tivo), ancorché la forma prescelta sia di persone ed allora si può dire che il giudizio di omologazione si mantiene nel campo della legittimità oppure si riconosce che la norma consenta la presenza di un ‘deficit patrimoniale’ (perdite eccedenti il capitale non ripianate), ma demandi al giudi­zio di omologazione una individuazione, discrezionale, del punto critico, oltre il quale la misura del deficit non consente più la realizzazione dello scopo sociale. In que­sto caso si è nel giudizio di merito. Ma l’ordinamento consente un tale giudizio ?

Riemergono le posizioni già individuate nel prece­dente capitolo ed i dubbi che sia consentito al giudice di sostituirsi ai contraenti per valutare le probabilità di realizzare i loro obiettivi, a meno di ritenere che lo scopo sociale sia di interesse collettivo diretto. Se così fosse, ma non è facile accettarlo, l’ordinamento avrebbe co­munque dovuto predisporre ben altro tipo di giudizio, con garanzie per la idoneità dell’organo giudicante di valutare direttamente situazioni economiche e patrimoniali.

4 – FUNZIONE DEL CAPITALE NELLE SOCIETA’ DI PERSONE

Nel decreto in commento si può anche considerare cri­ticamente la validità della: “… funzione di indefettibile strumento operativo assegnato dalla legge al capitale in ogni aggregato societario, indipendentemente dal tipo di appartenenza”.

Sul punto si richiamano temi, che hanno interessato dot­trina e giurisprudenza con contrasti non ancora esauriti. L’affermazione della Corte contiene una generalizzazione perentoria e sostiene l’esigenza che nelle società di per­sone, qualunque possa essere l’oggetto, il capitale abbia ricevuto dalla legge la funzione di indefettibile stru­mento operativo per la concettuale equivalenza fra il significato del termine conferimento dell’art. 2295, n. 6, c.c. e l’omologo capitale sottoscritto e versato dell’art. 2328, n. 4, stesso cod., come si potrebbe evin­cere dalla ripresa del secondo termine negli artt. 2303 e 2306 c.c. In effetti il rilievo non è insignificante, ma, sul punto, è necessario richiamare la precedente distin­zione tra rap­porti interni ed esterni, che l’ordinamento considera per giustificare, limitamente ai secondi e per le società di capitali, l’interesse pubblico per i comporta­menti. E’ noto, ad esempio, che la giurisprudenza, pur dopo oscillazioni ed incertezze, ma, soprattutto, radicalizza­zioni, pare consoli­dare la distinzione tra annullabilità e nullità delle deliberazioni assembleari proprio in rela­zione ai soggetti, i cui interessi sono ritenuti meritevoli di tutela, limitando la nullità ai casi di contrasto con norme dettate in vista dell’interesse generale, trascen­dente quello dei singoli soci.

E’ altrettando significativo che gli articoli 2446 e 2447 c.c. non abbiano omo­loghi per le società di persone, il cui fallimento trascina quello personale dei soci.

Nelle società di persone non esiste una preoccupazione spe­cifica dell’ordinamento per i rapporti esterni, poiché il presidio è automaticamente affidato alla responsabilità il­limitata dei soci, trascurando, ovviamente, gli accoman­danti. Ne consegue che, mentre il sistema degli articoli 2325 e segg. è caratterizzato da bipolarità, quello delle società perso­nali ha come referente principale i rapporti interni. Se questa interpretazione è esatta, seppur con i limiti di ogni generalizzazione, si deve ritenere che il capitale, a parte varianti lessicali talvolta maldestra­mente utilizzate dal nostro legislatore soprattutto in ma­teria economico-contabile, non può avere ricevuto la stessa funzione nelle due classi di società e che l’uso del ter­mine negli artt. 2303 e 2306 non significhi estensione dei principi fonda­mentali caratterizzanti situazioni diverse, soprattutto per la diversa funzione dell’affidamento dei terzi. La con­clusione è, allora, nel senso che gli art. 2303 e 2306 hanno riguardo più a rapporti fra soci. Infatti le due norme impedi­scono riparto di utili o riduzioni di ca­pitale, in presenza di perdite o di opposizioni di terzi, ma la preoccupazione verso questi si ferma ad impedire un possibile ulteriore depauperamento diretto della forza pa­trimoniale della so­cietà e non impone un comportamento consequenziale alla loro tutela. Sono più norme correlate al principio di auto­nomia patrimoniale della società che non alla diretta tutela degli interessi patrimoniali dei terzi [3]. Peraltro, non è difficile osser­vare che, se le norme finiscono per avere un senso in rela­zione alla loro effet­tiva vitalità applicativa, si deve constatare che, mancando una norma per la misura minima del capitale so­ciale, la sua determinazione è, in concreto, sempre simbo­lica e limitata a quella risibile misura che serve solo a determi­nare la partecipazione proporzionale dei soci, comunque ra­ramente suscettibile di riduzione.

Indubbiamente le argomentazioni che riferiscano alla let­tera degli articoli 2303 e 2306 c.c. la necessità di una presenza del capitale nella società in nome collettivo sono fra le più significative, in astratto, che i fautori della tesi possano esporre, ma la mancanza di un omologo dell’art. 2327 c.c. non può essere considerata una dimenti­canza del legislatore integrabile dall’interprete. In effetti, una collettiva, il cui oggetto sociale sia la prestazione di servizi, potrebbe nascere priva di capitale sociale, limitandosi a prevedere, a sensi dell’art. 2295, n. 6, C.C. il conferimento, in questo caso di opera, dei soci e la relativa valorizzazione, questo non tanto per dare una dimensione patrimoniale al fondo comune in rela­zione alla tutela dei terzi, come avviene nelle società di capitali, ma, semplicemente, per costituire la triade dei requisiti essenziali per un contratto di società, previsti dall’art. 2247 C.C., il cui scopo è inequivocabilmente pri­vatistico, nonostante l’attrazione dell’istituto societario in genere e della società di capitali in particolare alla sfera pub­blica operata da dottrina e giurisprudenza.

La stessa Corte bresciana ha dimostrato di non fare grande affidamento alla tesi del richiamo degli artt. 2303 e 2306 c.c., se ha ritenuto di incentrare la propria motivazione sulla inadegua­tezza di merito della situazione di perdita al raggiungi­mento di quello scopo essenzialmente privato, che l’art. 2247 c.c. ha individuato nel prosaico consegui­mento di un utile da spartire.

E’ convincimento del commentatore che quest’ultima norma possa fornire riferimenti interessanti proprio per il suo carattere generale, valido per ogni tipo di società, con il cui contratto due o più persone conferiscono beni o ser­vizi per l’esercizio in comune di un’attività allo scopo di dividerne gli utili. Il conferimento è visto dal legi­slatore come il mezzo materiale (cioè l’elemento oggettivo) con cui i soggetti (elemento soggettivo) realizzano una proficua (per loro) attività economica. Il conferimento di beni o servizi (l’indefettibile strumento operativo, se­condo la Corte bresciana) assume nell’art. 2247 c.c. la po­sizione di genus, le cui species saranno, tipicamente, i conferimenti di ciascun socio nell’art. 2298 c.c. ed il capitale sottoscritto e versato nell’art. 2328 c.c.

Conferire significa etimologicamente portare insieme più cose nello stesso luogo e le cose possono essere beni o servizi. Si pone allora la domanda pregiudiziale: beni o servizi possono avere un valore negativo ? Il significato di bene in senso economico, ripreso implicitamente anche dal codice civile, è diverso da quello morale, ma non vi è dubbio che al singolare il significato è comunque e sempre positivo. Al plurale, direbbe un matematico, il significato perde il suo segno algebrico. Non è un caso che l’art. 810 c.c. definisca, ma più che una definizione è una individua­zione, i beni come cose, la cui genericità di significato è rilevata criticamente da ogni buon vocabolario. L’ulteriore precisazione: “… che possono formare oggetto di diritti”, non è di aiuto, perché anche gli enti negativi cadono nel diritto. In concreto, il legislatore avrebbe an­che potuto omettere senza gravi perdite l’art. 810. Più signifi­cativo è invece l’art. 2555 c.c., che definisce l’azienda un complesso di beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa, ma l’aggettivo organizzati im­plica una condizione diversa dalla somma di enti con lo stesso segno. Quindi il codificatore attrae nel concetto di beni anche gli enti di segno negativo. L’essere organizzati insieme dall’imprenditore per un fine, consente l’implicito riferimento ad una situazione complessa, in cui enti posi­tivi e negativi sono fra loro complementari e correlati in senso strumentale ed economico, senza implicare un risul­tato positivo della loro somma, che potrebbe essere di se­gno negativo oggi e positivo in futuro senza necessarie contraddizioni, perché il principio nominalistico che regge l’espressione dei valori non ha assolute certezze in econo­mia. Ed il legislatore non lo ha ignorato, tanto è vero che il conferimento in società di capitali deve essere determi­nato, per l’art. 2343 c.c., da un esperto, al cui giudizio tecnico-professionale sacralizzato in giuramento e non alla discrezionalità del giudice è fatto affidamento. Non è posta la condizione che la sintesi della valutazione dell’esperto debba essere positiva. Infatti, il conferi­mento può anche essere negativo se assorbito in altri con­ferimenti, ad esempio di danaro, che, insieme, determinano un saldo positivo corrispondente al capitale sociale sotto­scritto.

Anche per questo non sembra un caso che l’art. 2343 c.c. non abbia un omologo per le società di persone.

Ma se il significato di beni non è necessariamente ed univocamente positivo o attivo, la locuzione conferiscono beni o servizi dell’art. 2247 c.c. deve essere intesa nel significato plurale e complesso dell’art. 2555 c.c. e il saldo sarà condizionato da norme del tipo del 2327 c.c., al cui rispetto, quando si tratta di responsabilità limitata al capitale conferito, il legislatore ha posto i presidi della stima giurata e dell’omologazione di legitti­mità da parte del giudice.

Non contrasta quindi con norme di legge la possibilità di costituzione di società in nome collettivo con fondo nega­tivo, poiché la responsabilità illimitata dei soci svolge la stessa funzione dell’analoga dell’imprenditore indivi­duale, al quale non è certo inibito avviare un’attività economica con un fondo passivo. Anzi, è la regola del si­stema capitalistico, fondato su soggetti con senso dell’intrapresa, inizialmente privi di capitali propri ed indebitati verso le economie esterne, quindi con fondo iniziale deficitario. Il legislatore si è sempre astenuto dal chiedere all’imprenditore individuale la dimostrazione di una capacità patrimoniale, perché sa che in economia la forza che spinge in avanti i coraggiosi e tiene desti i trepidi sono i debiti, non le ricchezze. E’ un discorso dia­lettico, forse non gradito ad utopistiche correnti di pen­siero alla moda, ma è pur sempre una regola naturale, che affannosamente cercano di riscoprire i sistemi, che si erano illusi di abolirla.

Nella fattispecie, non è utile nemmeno rilevare che per la trasformazione il giudice è chiamato ad emettere un provvedimento di omologazione invece non previsto per il caso di costituzione, poiché tale constatazione comporta proprio la insostenibilità di una valutazione di merito riservata solo al primo caso oggettivamente analogo, a meno di voler proporre una incostituzionale disparità di trattamento.

5 – CONCLUSIONI

La conclusione, seppur necessaria in ogni decisione del giurista applicato a cui non si chiede altro che una sentenza per motivi espressi o no, non dovrebbe avere cit­tadinanza nel mondo del diritto speculativo, sempre aperto ad ogni nuova proposta suggerita dalla fantasia del giuri­sta, che è il sale del suo rigoroso sapere [4]. Qui non si traggono conclusioni, poiché il fine è, invece, la solleci­tazione ai giuristi, categoria a cui non appartiene chi scrive, per una ripresa analitica di un problema, che la ma­gistratura bresciana ha risolto con decisione convinta, seppur con difficoltà a riempire la scatola dei motivi. Quella scatola per noi latini, a ragione o a torto, è molto più importante della decisione, come se invece della giu­stizia costruita sulla saggezza e sul carisma del giudice si attendesse la dimostrazione della sua cavillosa cultura. Nemmeno i giudizi arbitrali, per i quali la figura del giu­dicante è liberamente scelta e quindi creduta a priori, restano esonerati dalla richiesta dei motivi.

Nel caso esaminato si è tentato solo un gioco di ri­cerca di motivi che possono condurre ad una conclusione di­versa, nel senso che, data la netta separazione nel codice civile del regime delle società di persone rispetto a quelle di capitali e la limitazione dell’intervento del giudice omologante alla sola area della legittimità, può non essere insostenibile la tesi che la trasformazione da società di capitali in società in nome collettivo per l’opzione prevista dall’art. 2447 c.c. potrebbe avvenire anche in costanza di ‘deficit’ patrimoniale, come gli stessi giudici bresciani hanno ammesso, seppur considerandone la misura. Potrebbe es­sere stimolante anche ipotizzare un intervento dell’autorità giu­diziaria in riferimento agli artt. 6 e seguenti della Legge fallimentare, qualora il ‘deficit patrimoniale’ assumesse le connotazioni dello stato di insolvenza, da constatare parallelamente al giudizio di concessa omologazione. Ma, come si sa, il fallimento d’ufficio è comunque e solo una pagina dei manuali.

Pietro Bonazza

 


 

[1] Lanfranco Mossini, “Per questi motivi”, Giuffré, Milano 1981.

[2] L’aggettivo ‘positivo’ può risultare pleonastico, ma in senso dialettico può esistere un capitale negativo, che la patologia di azienda denomina ‘deficit patrimo­niale’.

[3] Si ritiene cioè che la cautela contro il depauperamento del patrimonio sociale, in presenza di responsabilità illimitata di tutti i soci, sia volta più a garantire la ripartizione interna delle responsabilità. Infatti, nel caso di riduzione del capitale, che si realizza anche con la distribuzione di utili, un socio che “consumi” la sua quota di riduzione lascerebbe esposti ai diritti patrimoniali dei terzi gli altri soci. La difesa del fondo comune realizzata dagli artt. 2303 e 2306 c.c. è, quindi, soprattutto, una garanzia di equiparazione delle responsabilità illimitate fino a concorrenza del fondo comune.

[4] Vincenzo Panuccio, “La fantasia nel diritto”, Milano, 1984.