Polemiche e timori diffusi dalla stampa in questi giorni sui due fenomeni: altalena delle borse da una parte e disfunzioni del sistema bancario nostrano dall’altra, suggeriscono la metafora dell’incudine e del martello, con conseguente ricerca del soggetto, che prende carezze dai due. Infatti, volatilità cronica delle borse, dimenticanza dei fondamentali dell’economia e sbandamento delle banche portano al pettine nodi, che media e loro ispiratori hanno ignorato o volutamente congelato.
Partiamo dalla borsa, l’incudine. Nessuno si illudeva, a partire dalla metà degli anni Ottanta che la borsa avrebbe continuato a scorrere i giorni del calendario, come i grani tutti uguali di un rosario, perché l’internazionalizzazione della finanza, faccia della moneta globalizzazione, avrebbe finito per cambiare non le regole del gioco, ma l’equilibrio psichico dei giocatori, cioè la capacità di questi di interpretare correttamente le regole. È bene precisare subito che i giocatori non sono solo gli analisti finanziari e gli operatori bancari del settore finanziario, ma anche i risparmiatori, ansiosi di raddoppiare subito i loro capitali, in spregio all’assioma: grande guadagno-alto rischio. Che le regole siamo rimaste invariate ce lo ricorda uno studio della BCE, di circa un anno fa, in cui spicca l’osservazione che: « In un mercato efficiente le quotazioni azionarie vengono determinate dal flusso attualizzato dei dividendi attesi che saranno distribuiti agli azionisti in futuro. In tal senso, le quotazioni azionarie sono inerentemente orientate al futuro e incorporano rapidamente qualsiasi nuova informazione che induca gli operatori di mercato a rivedere le proprie aspettative circa le grandezze economiche fondamentali che dovrebbero determinare il valore dei titoli.». Come i giocatori abbiano interpretato le regole è degno della canea dei commentatori del dopo-calcio e la volatilità ne è la prova, complice quella ossessiva fame di notizie, che porta a pretendere di avere dalle società bilanci ormai quasi mensili, dati e comunicazioni su singoli affari pretesi da autorità, incapaci di controllare il periodo medio, figuriamoci il quotidiano! Così tra un’OPA mal proposta e mal riuscita, una soffiata su un cambio di manager e una notizia abilmente infiltrata in presenza di giornalisti bravi soprattutto a protendere microfoni verso bocche oracolari, la borsa ha finito per perdere la sua vera funzione di mercato dei capitali e, allora, ecco apparire la solita ricetta: regole sempre più numerose, codici di comportamento, etiche da “Manuale delle giovani marmotte” di strisce disneyane, che, per gestirle tutte e bene, finiranno per assorbire tali e tante inutili risorse, da far dubitare che i dividendi spetteranno a consulenti (oggi si chiamano advisor), società di rating e altra fauna più o meno professionale invece che agli azionisti. Sono convinto che chi vuol fare utili sta alla larga dalla borsa e così chi ha bisogno di capitali. In borsa si va per fare scommesse e operare sui derivati.
Di contro il sistema bancario fa da martello. In mercati efficienti, si sa, ognuno svolge un ruolo e trova uno spazio, purché produca un valore aggiunto sulla filiera della formazione del prodotto o del servizio. Quando la banca centrale indigena, ancora banca “dell’Italia”, dichiarò di rinunciare al blocco di stabilimento lasciando liberi i banchieri di aprire sportelli anche nei condomini (è accaduto) vi fu la corsa all’apertura di vari negozietti, più fitti di mescite in paesi di alpini. Sennonché gli alpini, anche quando hanno sete bevono senza sbevazzare. I banchieri no, hanno scialato e scaricato i costi sui servizi e sui dividendi e fin qui era da mettere in conto. Invece, non si era considerato l’allontanamento delle banche dalla realtà delle singole imprese e la perdita della professionalità, non computerizzabile, di assumere e soppesare il rischio di credito, conseguenza della capacità di selezionare progetti e “vivere” criticamente a fianco dell’impresa finanziata, perché conosciuta, senza cadere nella trappola della banca tedesca, che, come tutto quel paese animato da buonismo sociale, è un reperto archeologico.
In un mercato efficiente: borsa e banca si dividono funzioni, segmenti, servizi ed erogazione dei capitali.
Non è stato così. Non è così. Le imprese piccole e medie lamentano una crescente distanza del mondo bancario, salvo nel propinare una gamma di servizi di professionalità non sempre elevata e spesso nemmeno richiesti. Ma l’alternativa non esiste: in borsa sarebbe addirittura peggio. In effetti la borsa non ha funzionato nemmeno per Fiat, Cirio e chissà quante altre big, vista la preoccupata presenza dei banchieri al capezzale dei malati, che poi è una presenza al proprio capezzale, per malattie tenute nascoste da anni. Le banche hanno usato la lesina con piccoli e medi e hanno scialato con i grandi. I banchieri hanno voluto sostituirsi alla borsa e ora devono fare i conti con la quotazione dei loro stessi titoli. Da qui l’insegnamento che, se la banca intende fare da intermediario tra la grande società e la borsa, mette a repentaglio i propri azionisti. E allora?
Probabilmente siamo in un momento di transizione. Siamo certi – e ne abbiamo conferma dal citato studio della Bce – che le regole del gioco non sono cambiate e che è sempre valido l’assioma: capacità di reddito è capacità di credito. Sono i giocatori e gli arbitri che debbono ricordarsene. Bisogna anche smetterla di parlare di calcio (pardon: di borsa) a tutte le ore, perché la ridda di chiacchiere smerciate per pareri finiscono per creare solo una gran confusione e se i rumor diventano fracasso, come nelle discoteche non si sente più niente.
Forse è venuto il momento di ripensare certe strategie sul sistema idraulico del credito. La banca non può evolversi in direzione diversa dall’evoluzione del mercato dei propri clienti, che è anche il suo mercato. Se gli imprenditori si lamentano e non vogliono fare da ferro battuto tra incudine e martello, abbiano il coraggio di inventarsi nuove strutture creditizie più adatte alle loro esigenze, ricordando che le banche sono come le ostetriche di buona memoria: aiutano le nascite, ma a loro volta nascono dall’impresa.
(Pubblicato in “ItaliaOggi”, 26 febbraio 2003, pag. 1-5)