Pietro Bonazza

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RELAZIONI delle “azioni proprie” in portafoglio CON IL BILANCIO DI ESERCIZIO E CON le valutazioni del capitale economico e di pacchetti azionari

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(testo della conferenza tenuta il 7.12.2000 e pubblicata in “Rivista dei dottori commercialisti”, anno 2001, n. 4)

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sOMMARIO:

1. Introduzione

2. norme di riferimento

3. Valutazione delle “azioni proprie” secondo la giurisprudenza

4. … secondo i principi contabili

5. Valutazione del capitale economico della società

6. Relazioni con la valutazione di pacchetti azionari.

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1 – Introduzione.

 

Scopo di questa nota non è l’esposizione, neppur in forma generalizzata, di un fatto riscontrato nella pratica, ma la proposta di alcune riflessioni, che possono orientare la soluzione di casi concreti. Per questo motivo si ricorre ad astrazioni e ipotesi, innanzi tutto che il cessionario sia a conoscenza delle strategie della società, di cui sta realizzando l’acquisto di un pacchetto azionario di minoranza in presenza di “azioni proprie” iscritte in bilancio. L’ipotesi è, in effetti, la premessa che – determinato il valore del patrimonio globale della società secondo tecniche estimatorie condivise tra le parti oppure per gioco dialettico concludente su un valore da considerare “concordato di comune accordo” – sia affrontata con “equità” la soluzione del dubbio se la percentuale effettiva del pacchetto azionario di minoranza in cessione debba subire o no un accrescimento proporzionale alle “azioni proprie”. L’equità, realizzabile con determinazioni razionali, implica che, dopo la valutazione dell’intero complesso, comunque avvenuta o convenuta, nessuna delle parti realizzi arricchimenti.

Per dimostrare la correttezza delle conclusioni, si renderà necessario simulare il caso di un acquirente simultaneo di tanti pacchetti di minoranza, la cui somma rappresenti il completamento a 100 rispetto alle “azioni proprie” detenute dalla società, talché sia configurabile, come conclusione, una situazione analoga all’acquisto dell’intera società. è evidente che si tratta di un’ipotesi astratta e provocatoria, proposta per evidenziare l’esborso totale del cessionario e mettere, così, a prova il raggiungimento o no del principio di equità. Tale simulazione, proprio per la sua astrazione, non è contraddittoria o incoerente con il caso di acquisto da parte dello stesso cessionario di un pacco di maggioranza, perché qui possono entrare in gioco considerazioni di diverso tipo.

 

2. norme di riferimento.

Il fenomeno economico precede, quasi sempre, quello giuridico, che, sopravviene per regolamentare situazioni di pericolo o patologiche. Probabilmente dalla sua invenzione, la società trova occasioni per acquistare se stessa. Al limite e in mancanza di regole, la società può realizzare un fenomeno di auto-proprietà, non facile da immaginare nemmeno in astratto. Sarebbe la realizzazione di una società totalmente ‘managerializzata’, gestita da funzionari e senza proprietari nemmeno ideali, una specie di fondazione di fatto. Nella società per azioni, storicamente “anonima”, lo stacco della “persona” società, resa del tutto autonoma con il riconoscimento della personalità giuridica, dalle persone dei soci, agevola l’acquisto di “se stessa”, anzi, in astratto, legittima la possibilità e l’operazione. Per constatare come il legislatore segua l’evoluzione del comportamento e non viceversa, è utile confrontare l’art. 2357 vigente fino alla modifica del 1986. Nella versione anteriore la materia era regolata dal solo art. 2357, che si limitava a vietare:

l’acquisto di “azioni proprie” se non deliberato dall’assemblea con somme prelevate da utili netti “regolarmente accertati”,

la disposizione successiva da parte degli amministratori e il diritto di voto,

ma senza porre limitazioni alla quantità acquistabile. Il legislatore impiegò dieci anni a recepire la Direttiva CEE n. 77/91 del 13.12.1976 e lo fece riscrivendo l’art. 2357 e aggiungendone tre. Si può ipotizzare che l’art. 2357 del 1942 sarebbe ancora tale senza le imposizioni comunitarie. Come in altre occasioni e per altre materie, il diritto commerciale, societario in particolare, è stato modificato solo per imposizione del legislatore sovranazionale, perché il nostro è insensibile al dinamismo del mondo degli affari e della finanza in particolare. L’attuale art. 2357 non è certo un capolavoro di tecnica legislativa, ma, se non altro, può evitare la creazione di mostri giuridici e di abusi da parte degli amministratori e dei soci stessi, spesso coincidenti. Perciò, ha posto tre condizioni essenziali:

– la fonte: gli acquisti possono essere effettuati solo con “utili distribuibili” o con riserve disponibili risultanti dall’ultimo bilancio approvato. La ratio della norma è evidente: il patrimonio della società può essere impoverito (ogni distribuzione di utili o di risorse è riduzione di capitale netto) solo con un’operazione che può porsi come alternativa a una legittima assegnazione di risorse ai soci;

il limite. Il legislatore è stato più rigoroso rispetto alla possibilità della distribuzione ai soci e ha posto il limite del 10% del capitale sociale. Infatti, si potrebbe avere il caso di una società che ha destinato a riserve disponibili utili pregressi per valori molto elevati e ben superiori al “valore” del decimo del capitale sociale, utili che potrebbe legittimamente distribuire in toto e in unica soluzione ai soci, ma non potrebbe comunque impiegare per l’acquisto di “azioni proprie” oltre il tetto stabilito. In astratto potrebbe impiegare in acquisti tutte le riserve, ottenendo lo stesso risultato della distribuzione diretta, ma dovrebbe attribuire all’azione un valore tale da non superare in ogni caso il 10% del capitale sociale. Questa forzatura potrebbe portare alla determinazione di un valore per azione contrario a principi di ragionevolezza. È vero che il legislatore non si è preoccupato di fissare un criterio per la valutazione dell’azione, perché l’obiettivo è il mantenimento del 90% delle azioni in mani a persone, fisiche o giuridiche, diverse dalla società, nella cui assemblea possano esprime voto. Ma la libertà che ne deriva è comunque relativa, perché deve fare i conti con la valutazione successiva, secondo i principi, che saranno esaminati nei §§ 2 e 3, oltre al rischio di nullità della deliberazione per illiceità dell’oggetto prevista dall’art. 2379 cod. civ. [1];

4. l’autorizzazione. L’art. 2357 attribuisce solo all’assemblea [2] il potere di consentire l’operazione, con delibera che deve prevedere, con vincolo per gli amministratori, numero massimo, termine non oltre diciotto mesi e limiti minimo e massimo di prezzo. Speculare a questa norma è il divieto per gli amministratori di disporre delle azioni senza previa autorizzazione dell’assemblea (2357 ter[3].

Questa è la normativa basilare. Fanno da corollario gli articoli 2357 bis, ter e quater, che non interessano direttamente lo scopo di queste note, fatta eccezione per il secondo comma dell’art. 2357 ter, che nega alle “azioni proprie” il diritto agli utili e il diritto di opzione, da collegare al successivo § 5.

Con D.Lgs. 9 aprile 1991, n. 127, il legislatore, recependo la IV Direttiva comunitaria sul bilancio, ha anche dettato all’art. 2424 cod. civ. le voci di rappresentazione delle “azioni proprie”, nell’attivo in B.III.4 tra le “Immobilizzazioni finanziarie” oppure in C.III.5 tra “Attività finanziarie non costituenti immobilizzazioni”. Questa classificazione ha importanza per quanto si dirà in seguito. Inoltre, nel passivo, tra le voci del “Patrimonio netto” deve essere isolata una “Riserva per azioni proprie in portafoglio” (A.V), quale applicazione formale dell’ultimo comma dell’art. 2357 ter cod. civ., che impone l’iscrizione al passivo di una riserva di valore pari a quello delle “azioni proprie” registrate nell’attivo, con l’evidente scopo di impedire l’abuso di una plurima utilizzazione della stessa riserva e per scopi diversi [4]. Si noti che la riserva non distingue tra “azioni proprie” iscritte tra le immobilizzazioni o nel capitale circolante, perché la sua costituzione è indifferente alle motivazioni dell’acquisto, constatazione che può fornire un qualche appoggio ai sostenitori della tesi che la riserva ha natura rettificativa e che il legislatore ha implicitamente scelto il criterio di valutazione delle “azioni proprie” al “costo storico”, sia per quelle immobilizzate e sia per quelle destinate allo smobilizzo a breve. Non rientra negli scopi di queste note approfondire il complesso problema del criterio di valutazione e, pertanto, l’analisi è limitata alla esposizione delle tesi.

 

 

3. Valutazione delle “azioni proprie” secondo la giurisprudenza.

 

Acquistate le azioni con rispetto delle norme esaminate nel § precedente e registrate in bilancio secondo le forme corrette, il bene, immobilizzato o circolante, diventa correlato alla gestione e ne subisce l’influsso, talché si pongono problemi di valutazione, successivi all’acquisto, tanto più incisivi quanto più dinamica è la gestione e si allontana la data iniziale di iscrizione.

La Corte di cassazione, con la già citata sentenza 3 settembre 1996, n. 8048, ha affrontato il problema della valutazione alla luce delle norme attuali, dandone motivazione pur dovendo esaminare una fattispecie del 1982, quindi anteriore alle modificazioni del 1986 e del 1991 e ha affermato il principio che: « …le azioni proprie in portafoglio, siccome rappresentano un valore che esiste nel patrimonio della società emittente ed è suscettibile di essere monetizzato, debbono essere iscritte in bilancio secondo i criteri di valutazione ed, in genere, secondo le regole stabilite dalla legge per qualsiasi altro titolo azionario.» Il criterio era già enunciato in sentenze della giurisprudenza di merito, come, per esempio, da Tribunale di Milano 14 luglio 1983, che, pur in presenza di una normativa diversa dall’attuale, riconobbe validità alla esposizione in bilancio “al costo” di “azioni proprie” di società quotata in borsa, poiché gli amministratori avevano dato motivazione del criterio scelto in riferimento alla ragionevolezza e alla considerazione che in bilancio figuravano come “immobilizzazioni finanziarie”. Si arguisce dalla sentenza milanese anche argomentando a contrariis, che il criterio principale è quello adottato per gli altri titoli azionari. Ritornando alla Corte di cassazione si osserva che nella citata sentenza non ha avuto accoglienza l’eccezione che, prescrivendo l’art. 2357 ter, ultimo comma, l’obbligo di iscrivere “una riserva indisponibile pari all’importo delle azioni proprie iscritto all’attivo del bilancio”, l’assunzione di un valore diverso dal costo storico implica una modificazione della riserva stessa. La Suprema corte svicola dal cuore del problema e scarta la tesi della «… totale irrilevanza del valore attribuito alle azioni proprie in bilancio, la cui validità non potrebbe quindi essere giammai messa in discussione per un preteso eccesso o difetto di motivazione, dovendosi dette azioni iscrivere sempre e comunque per un importo pari alla somma degli utili impiegati per il loro acquisto ». Ad avviso della Corte tale opinione non sarebbe condivisibile, perché presupporrebbe «… che la posta passiva cui s’è fatto cenno abbia una mera funzione rettificativa dell’attivo e serva cioè unicamente ad elidere, nella somma algebrica le due colonne contrapposte dello stato patrimoniale, l’effetto dell’iscrizione in attivo del valore delle azioni proprie. Se anche così fosse, probabilmente non ne deriverebbe l’irrilevanza della valutazione attribuita a quelle azioni, perché il solo fatto che una posta venga iscritta in bilancio postula, logicamente, che essa debba poter fornire un’indicazione significativa e riferibile alla data della chiusura del bilancio [5]. Vero è, comunque, che la posta passiva di cui è parlato non ha affatto funzione meramente rettificativa dell’attivo, ma costituisce invece una vera e propria riserva, destinata ad esprimere valori facenti parte del patrimonio netto della società…» È evidente che la Corte di cassazione non ha esaminato il problema nella sua dinamica sostanziale e si è limitata a sostenere l’irrilevanza che valore delle “azioni proprie” in attivo e “riserva indisponibile” in passivo debbano avere eguale valore per imposizione dell’art. 2357 ter, u.c., perché si tratterebbe di due fenomeni diversi, seppur eguali nel valore e la loro corretta espressione deve rispondere ai requisiti di chiarezza e di precisione, tant’è che così motiva: «…anche ammesso che debba esservi una rigorosa biunivoca corrispondenza tra l’entità della posta iscritta in attivo per indicare il valore delle azioni proprie in portafoglio e quella del passivo riguardante la su accennata riserva di patrimonio netto, nulla permette di affermare l’irrilevanza dell’indicata valutazione ai fini della corretta redazione del bilancio. » Le espressioni della Corte: “se anche così fosse” e “anche ammesso”, non sono certo coerenti con la corretta interpretazione dell’art. 2357 ter, u.c., in cui il legislatore usa la non opinabile locuzione “deve essere costituita e mantenuta”. Quindi, le ambiguità della Corte debbono essere rifiutate e non basta portare come argomento forte l’obbligo di chiarezza e precisione, che sono altra cosa, come dimostra il fatto che anche il “costo storico” è idoneo a soddisfare tali principi. Alla Corte è sfuggito che, posto l’obbligo e non la discrezionalità della equivalenza biunivoca delle due poste, si deve esaminare se lo si può conciliare con l’attribuzione alle “azioni proprie” di un valore determinato con lo stesso criterio delle altre. Dobbiamo però chiederci, quali possano essere le “altre”. È ovvio che “debbano” essere azioni con le stesse caratteristiche delle proprie, perché è solo così che vi si possono paragonare per impiegare gli stessi criteri di valutazione. Ma le “azioni proprie” si trovano nella situazione imposta dall’art. 2357 ter, comma 2, cod. civ., secondo cui: «…finché le azioni restano in proprietà, il diritto agli utili e il diritto di opzione sono attribuiti proporzionalmente alle altre azioni. Il diritto di voto è sospeso…». Si tratta, quindi, di un paragone impossibile, perché verrebbe posto tra entità eterogenee e il criterio di valutazione dell’una categoria non può essere esteso all’altra.

Per capire la sostanzialità del fenomeno sarebbe bastato alla Corte porre l’ipotesi di “azioni proprie” acquistate a 100 e mantenute al “costo storico” in una serie di bilanci antecedenti, mentre nell’ultimo, in corso di formazione, gli amministratori, per rispettare i principi affermati nella sentenza n. 8048, si sentano costretti, per realizzare chiarezza e precisione a prova di Cassazione, a stimare le azioni a 150; ma, il conto economico dell’esercizio chiuda in pareggio. Osservato che – se si è nel caso dell’art. 2426 n. 9 la plusvalenza di 50 deve essere affluita nel conto economico – con quali metodologie contabili, o, più sostanzialmente, attingendo a quali valori si può allineare a 150 il valore della “riserva indisponibile” esposta in contrapposizione nel passivo, che “deve” essere “mantenuta” pari al valore delle “azioni proprie”? Si dirà: l’adeguamento deve avvenire in sede di destinazione degli utili. A parte la priorità prevista dalla legge solo per la destinazione alle riserve legale e statutaria, se dopo averle eventualmente alimentate, non esistono ulteriori utili sufficienti a integrare la riserva per azioni proprie, come si risolve il problema? Si dirà: distaccando una parte delle altre riserve disponibili. Se non esistono o non sono capienti?

Si potrebbe sostenere che la conferma dell’obbligo a mantenere il costo storico anche per le azioni proprie non costituenti immobilizzazioni finanziarie, lo si desume anche dall’art. 2357ter, comma 2, cod. civ., che prescrive: « finché le azioni restano in proprietà della società, il diritto agli utili e il diritto di opzione sono attribuiti proporzionalmente alle altre azioni. Il diritto di voto è sospeso… » Se le azioni proprie perdono i diritti spettanti alle altre azioni, si può ancora sostenere che la loro valutazione debba essere fatta con i criteri ordinari previsti per gli altri titoli? E che dire, poi, dei casi di svalutazione? Ma su questo punto si dirà più avanti.

Come si può notare non è un problema meramente contabile, che il giurista spesso trascura come degno solo del tecnico, perché la vera ermeneutica, quella che è diventata corrente filosofica, ma è nata dal diritto, deve porsi in una dinamica circolare (il “circolo ermeneutico”), anzi a spirale e a un certo punto del circuito deve fare i conti con la tecnica, che è poi un fare i conti con se stessa, perché non esistono problemi diversi da assemblare con le loro singole soluzioni. Il problema è “uno” e la mancanza di rispetto di questo principio costituisce la parte debole della citata sentenza n. 8048.

 

 

4. … secondo i principi contabili.

 

La valutazione delle “azioni proprie” è trattata anche nel Principio contabile n. 20 del “Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e Consiglio Nazionale dei Ragionieri”, che però non risolve il problema sostanziale. Si colgono due affermazioni sui temi più importanti:

Cap. III, § 2: « Le azioni proprie devono essere iscritte in bilancio al costo d’acquisto… », ovviamente al momento dell’acquisto;

– Ai fini della valutazione a fine esercizio delle azioni proprie occorre distinguere, avuto riguardo alle determinazioni dell’organo amministrativo, se appartengono alla categoria delle immobilizzazioni finanziarie, oppure all’attivo circolante…Nel secondo caso le azioni proprie, qualora ne ricorrano le condizioni devono essere iscritte in bilancio anziché al costo, al valore minore espresso dal «valore di realizzazione desumibile dall’andamento del mercato », previsto dall’art. 2426, n. 9 cod. civ.

Se non è una parafrasi delle norme non è nemmeno di miglior ausilio.

 

 

5. Valutazione del capitale economico della società.

 

Come già si è ricordato, le “azioni proprie” sono iscritte tra le attività della situazione patrimoniale a sensi dell’art. 2424 B.III.4 o C.III.5, cod. civ. e, a fronte delle stesse, è bloccata nel Patrimonio netto una “Riserva” apposita indisponibile. Si ricorda che l’acquisto è avvenuto di norma mediante pagamento, per cui in quel momento si sono effettuate in contabilità per esempio, le seguenti registrazioni:

– per l’operazione finanziaria

“Azioni proprie” a Banca

– per l’operazione patrimoniale

“Riserva XY” (oppure “utili di esercizio”) a “Riserva azioni proprie”

 

Pertanto, le “azioni proprie” hanno un valore pari all’esborso sostenuto e nell’attivo del bilancio la riduzione delle attività liquide (per esempio: “Banche c/c”) o l’incremento dell’indebitamento per realizzare l’acquisto sono compensati da pari valore nelle “attività finanziarie” in aumento. Esistono quindi due problemi distinti seppur correlati: la determinazione del valore globale dell’azienda e la valutazione del singolo pacchetto azionario. In genere il primo è, per tempo e metodo, antecedente.

Si osserva che se la determinazione del “capitale economico” è stata effettuata con il criterio reddituale della attualizzazione del flusso dei redditi futuri, la stima ha già assorbito anche le “azioni proprie”. Se si è impiegato il criterio misto patrimoniale-reddituale, nel momento in cui si sono rettificate le attività, già si sarà provveduto a valutare le “azioni proprie” secondo il valore corrente anche rilevabile da corsi di borsa, se la società è quotata, che può aver evidenziato una plusvalenza oppure una minusvalenza; comunque, anche in questo caso, il valore del “capitale economico” già incorpora l’aggiornamento del valore delle “azioni proprie”, che sono trattate come un qualsiasi altro titolo. Si può ammettere che le motivazioni dell’acquisto e la collocazione tra le immobilizzazioni finanziarie o tra le poste di capitale circolante possono non essere del tutto ininfluenti, ma la considerazione normale, desumibile anche dalla citata sentenza della Corte di cassazione n. 8048/1996, attribuisce alle azioni proprie una correlazione agli altri valori non diversa da quella di qualsiasi altro impiego finanziario a lungo o a breve termine. È noto che la valutazione dell’intera azienda con criteri di redditività prende in considerazione risultati di gestione caratteristica e le risorse destinate alle azioni proprie sono estranee a essa; tuttavia nel contesto socio-economico contemporaneo, diversamente dal passato anche non lontano, la finanza ha assunto una presenza pesante e dinamica tale da poter ammettere che almeno una parte di operazioni finanziarie sono diventate caratteristiche e, quindi, da attrarre a essa anche i valori impegnati nelle proprie azioni. Ma se anche si volesse negare questa realtà, si dovrebbe pur sempre ammettere che la sottrazione di risorse, se di sottrazione si tratta, per l’impiego in azioni proprie, determinerebbe, in quel caso, una riduzione di redditività prospettica, che inciderebbe indirettamente sui processi di attualizzazione, dovendosi così riconoscere che il procedimento, pur nella sua sinteticità, ha tenuto conto del fenomeno. Peraltro, questo sarebbe ininfluente se la detenzione delle “azioni proprie” fosse di natura temporanea, in relazione alle motivazioni dell’acquisto, come avviene, per esempio, nel trading.

A conclusioni non diverse, sebbene per altra via, si può pervenire nel caso di applicazione del criterio di valutazione misto patrimoniale-reddito, anche se si deve superare l’obiezione di circolarità (il valore delle azioni proprie dipende dal valore dell’intera azienda, per determinare il quale si debbono prendere in considerazione anche le “azioni proprie” da valutare), ma si tratta di problema solo apparente.

L’attenzione preliminare, che si deve porre per la corretta soluzione del problema, è di non confondere la determinazione extracontabile del valore del capitale economico, al fine di stabilire quello del singolo pacchetto, con l’obbligo sancito dalla sentenza n. 8048 di valutare “contabilmente” le azioni proprie in sede di formazione del bilancio di esercizio. Non è l’analisi del problema della valutazione lo scopo di queste note anche se, dovendo rilevarne il criterio, si finisce per non ignorarlo, almeno obiter dicta. Se le azioni sono quotate in borsa e si tratta di pacchetti non significativi, in genere non c’è bisogno di far precedere la loro valutazione dalla determinazione del capitale economico, perché si può far riferimento ai corsi borsistici.

Se si tratta di società non quotata, dalla valutazione del capitale economico effettuata con criterio reddituale si otterrà il valore della singola azione da porre a base della valutazione del pacchetto, che potrebbe non concludersi con il semplice prodotto del valore unitario per il numero delle azioni da compravendere, perché bisognerà considerare i problemi esposti nel paragrafo successivo. Invece, se si intende adottate il criterio di valutazione patrimoniale e si intende simulare l’applicazione del principio stabilito nella sentenza n. 8048 e nel Principio contabile n. 20 per le azioni classificate nel capitale circolante, si può cadere in un percorso valutativo circolare. Poiché tale iter non è obbligato per le operazioni di compravendita da sviluppare extra-bilancio, resta da rilevare, come si è detto obiter dictum, l’erroneità della conclusione della sentenza n. 8048, così per constatare che anche in questo caso e nella sede di formazione del bilancio, l’unico criterio concretamente adottabile è quello del “costo storico” e non solo per la dimostrata impossibilità, almeno in alcuni casi, di mantenere l’equivalenza tra il valore delle azioni nell’attivo e la “riserva” nel passivo. Infatti, pur volendo trascurare quest’ultima essenziale imposizione del legislatore, si può dimostrare il vizio di circolarità insito nella sentenza n. 8048 con il seguente esempio.

La società Alfa abbia in bilancio 1.000 azioni proprie incluse nel capitale circolante e acquistate a 6.000 ciascuna a fronte di un capitale sociale di 100.000 azioni e di un patrimonio netto di 600.000.000. Per applicare l’art. 2426, n. 9, cod. civ., si determini prima il valore del capitale economico in 800.000.000. La singola azione avrebbe un valore di 8.000 e sarebbe richiesto all’amministratore, in base alla sentenza n. 8048, di rivalutare le azioni proprie per 2.000 ciascuna. Però la rivalutazione comporta carichi fiscali che riducono il capitale economico rendendo non più corretto il valore di 8.000 per singola azione. A parte la necessità di tener conto delle imposte potenziali, a meno di adottare un “doppio binario” reso possibile dall’art. 54 TUIR 917/1986, fatto che non è trascurato direttamente o indirettamente in alcun processo valutativo, resta inevitabile una rincorsa tra valore del capitale economico e valore della singola azione.

Nella critica alla sentenza n. 8048 e al Principio contabile n. 20, che fanno riferimento all’art. 2426, n. 9, cod. civ., si deve includere per le società non quotate anche la constatazione della difficoltà di applicare alle azioni proprie la scelta del minore tra costo di acquisto “valore di realizzazione desumibile dall’andamento del mercato”, perché può mancare proprio il “mercato”, a meno di sostituire tale parametro con il “patrimonio netto”. Ma, la sostituzione creerebbe altri problemi, perché il concetto di “valore di mercato” e più ampio di “patrimonio netto”. Nel caso ipotizzato dall’esempio non si potrebbero comunque apportare rivalutazioni alle azioni proprie, perché l’art. 2426, n. 9. cod. civ., tra il costo di acquisto e quello di mercato, impone il minore dei due e qui è evidente che, pur pensando a un mercato solo ipotetico, il costo di acquisto, in quanto minore, non potrebbe essere incrementato. Si ipotizzi, invece, che per una serie di circostanze possibili nella pratica, le azioni pur classificate nel capitale circolante, permangano nei bilanci alcuni anni al costo di acquisto di 9.000 ciascuna. Fermi gli altri dati dell’esempio e mantenendo la classificazione nel capitale circolante, si imporrebbe una svalutazione di 3.000 per azione e, pertanto, una riduzione della “riserva azioni proprie” di 3 milioni, liberando egual valore da trasferire alle “altre riserve” libere. Si potrebbe così mantenere il patrimonio netto a 600 milioni e consentire coerenza con l’art. 2426, n. 9, cod. civ. Si ricordi che il mancato rispetto della norma rende il bilancio scorretto non solo per le sopravvalutazioni, ma anche per le sottovalutazioni, con quel che ne consegue per la correttezza del bilancio e la responsabilità degli amministratori e per l’art. 2621 cod. civ. secondo l’interpretazione giustizialista, che ne dà la giurisprudenza penale. Il problema non si risolve nemmeno con metodo di “sensitività” o di what if, proponendo di rispondere alla domanda: quale sarebbe il valore di un impiego finanziario analogo alle azioni proprie? La risposta fornirebbe una prima correzione del patrimonio netto coeteris paribus, da cui si calcolerebbe il valore delle azioni, da utilizzare per correggere ulteriormente il valore di bilancio delle “azioni proprie”, con finale correzione del patrimonio netto contabile, ma l’art. 2426, n. 9, cod. civ. potrebbe risultare non rispettato.

Si osserva ancora che nessuna influenza può avere la constatazione che l’art. 2357 ter, comma 2, cod. civ. attribuisca proporzionalmente alle altre azioni il diritto agli utili idealmente spettanti alle proprie, perché la redditività globale resta invariata e il processo di distribuzione degli utili è fenomeno successivo al suo conseguimento. Peraltro è fatto ininfluente anche per il valore delle azioni proprie in sé, perché il dividendo mancato viene proporzionalmente spalmato sulle rimanenti.

Inoltre, vi sono considerazioni che forniscono ulteriori critiche all’obbligo di trattare le azioni proprie come “qualsiasi altro titolo azionario”. Si ipotizzi nel caso di azioni quotate che per improvviso crollo in dicembre del mercato borsistico, determinato da volatilità ingiustificata, il valore delle azioni proprie scenda sotto il valore del patrimonio netto contabile. Si potrebbe ancora sostenere l’obbligo di svalutazione?

Se si trattasse di azioni non quotate, la caduta del loro valore significherebbe presenza di perdita o perdite di esercizio notevoli, che, però, o trovano copertura in altre riserve senza alcuna necessità di correggere il “fondo azioni proprie” oppure, in mancanza o insufficienza, si rende necessario intaccare il fondo. In questo caso la svalutazione delle azioni proprie tra le attività sarebbe determinata proprio dal venir meno della equivalenza tra le due voci e si potrebbe sostenere che la riduzione della riserva è causa della riduzione del valore delle azioni, proprio l’opposto della tesi della sentenza 8048 della Cassazione. Si rifletta, in proposito, sulla conclusione del § D.V “Riserva per azioni proprie in portafoglio” del Principio n. 28 dei Consigli nazionali Dottori commercialisti e Ragionieri: « Se l’importo delle azioni proprie in portafoglio si riduce per qualsiasi motivo, la corrispondente parte della suddetta riserva si rende libera e può, così, essere distribuita ai soci, oppure girata in aumento di una o più riserve disponibili. » La locuzione “per qualsiasi motivo”, se letta in correlazione alle conseguenze della riduzione (distribuita ai soci, ecc.), sembra non tener conto delle cause economiche diverse dalla vendita e, così, non si può non rilevare, sul punto, una mancanza di coordinamento con il Principio contabile n. 20.

6. Relazioni con la valutazione di pacchetti azionari.

Non rientra negli obiettivi di queste note approfondire i motivi per cui una società realizza l’acquisto di “azioni proprie”, anche perché vi sono molti casi specifici che non offrono possibilità di generalizzazione. Inoltre, possono esistere motivi contingenti, legati a situazioni di diritto tributario, sempre molto mutevoli, come nel caso di società, in genere a ristretta base societaria, che realizzano una politica di acquisto delle proprie azioni in alternativa a distribuzioni di dividendi fiscalmente più onerose. Sempre in società a base ristretta, la precostituzione di un fondo per acquistare proprie azioni può essere uno strumento per rendere meno vincolanti patti di prelazione e consentire uscite di soci diversamente non realizzabili. La condizione di socio sostanzialmente captive è il prezzo da pagare per impedire circolazioni non gradite, ma contrastanti atteggiamenti giurisprudenziali, ritenuti dai soci troppo sensibili alla libertà di mercato, possono essere aggirati con l’operazione di acquisto azionario in funzione di possibile “via di fuga”. In questo caso deve esserci un raccordo logico, ancorché non esplicito, tra clausola di transfert e il fondo per l’acquisto, soprattutto con le sue modalità operative. In società quotate l’operazione può essere programmata per eventuali interventi a sostegno del titolo, anche se l’efficacia concreta è piuttosto limitata. Però, in collegamento con questo obiettivo, possono sorgere altri problemi, come la previsione espressa nella delibera assembleare di far funzionare la riserva per l’acquisto di proprie azioni come fondo di “rotazione” e, quindi, di realizzare il trading sulle stesse [6]. Connesso è anche il problema di eventuale reato di insider trading sulle proprie azioni, che ha avuto riscontri più all’estero, che in Italia, forse perché nel nostro Paese quel comportamento non trova facile applicazione giudiziaria [7]. Per le società quotate si può considerare anche il problema dei rapporti tra acquisto di “azioni proprie” e resistenza contro tentativi scalate ostili, che è reso complesso dall’incrocio con la normativa sull’OPA [8].

Le motivazioni dell’acquisto possono avere relazioni con la destinazione delle “azioni proprie” in portafoglio, così sintetizzabili:

 

1. permanenza sine die nel portafoglio della società emittente;

2. cessione sul mercato. In tal caso, verrebbe introitato il controvalore [9];

3. portate, con annullamento, a riduzione del capitale sociale, purché questa deliberazione sia precedente e l’acquisto delle azioni sia una modalità per dare esecuzione alla deliberazione di riduzione, come prevede l’art. 2357 bis, n. 1, cod. civ. [10];

4. assegnate gratuitamente agli azionisti.

 

Il problema del passaggio dal valore dell’intera azienda a quella del singolo pacchetto, può essere meglio affrontato con un esempio, che si collega direttamente con l’indicazione data nella introduzione.

Il socio Bianchi portatore dell’8%, che prima che la società – valutabile 1000 – realizzasse l’acquisto di “azioni proprie”, era proprietario virtuale di un valore pari a 80, continua a esserlo per lo stesso valore anche dopo, perché la società continua a valere 1000. Questa considerazione è valida solo in astratto e nella sola ipotesi che la società, intenda rivendere a breve le “azioni proprie”, perché, pur fermo il valore del capitale economico, bisogna verificare se si deve considerare un diverso valore della % reale del singolo pacchetto rispetto a quella formale. Per analizzare il fenomeno, si può simulare la posizione in cui si troverebbe l’acquirente. Infatti, se ci si pone dal suo punto di vista, l’onere per l’acquisto dell’intera società, dovendo rastrellare tutti i pacchetti che per somma danno 100% – se la società ha già rivenduto le “azioni proprie”, ripristinando la base societaria a 100 – è 1000, non equivalente al caso in cui ancora la società non abbia rivenduto, lasciando la base societaria a 90, perché l’acquirente, rastrellando tutti i pacchetti, spenderebbe 900, per aquistare un valore pari a 1000.

A questo punto si deve verificare se la quota di partecipazione al capitale sociale del singolo azionista aspirante venditore resti o no invariata, con eventuale riflesso sulla determinazione del valore del relativo pacchetto. Si devono esaminare le soluzioni separatamente in relazione a ciascuna delle quattro ipotesi di destinazione delle “azioni proprie” prima considerate. Inoltre, deve essere posta l’ipotesi che l’aspirante acquirente del pacchetto conosca le motivazioni dell’avvenuto acquisto e, quindi, le strategie della società per la destinazione, anche nel tempo, delle azioni stesse. La conoscenza agevola la convergenza delle due parti sulla realizzazione del fine di equità enunciato nell’introduzione.

 

 

6.1. …si prevede (o si ipotizza) che le “azioni proprie” siano lasciate sine die nel portafoglio della società emittente

 

In questo caso, poiché la riduzione della base societaria verrebbe mantenuta nel tempo, diventa proponibile una rettifica della percentuale rappresentativa del pacchetto, perché, se è vero che il valore del “capitale economico” è già stato aggiornato inglobando anche l’eventuale rettifica di valore delle “azioni proprie”, il rastrellatore di tutti i pacchetti sarebbe avvantaggiato dal mancato pagamento di quello acquisito implicitamente pari alle “azioni proprie”.

Per esempio se la società ha il 10% di “azioni proprie” e intende mantenerle in portafoglio, per cui riduce la circolazione a 90; l’azionista che detiene l’8%, dopo l’operazione passerà a un 8,88% virtuale secondo il calcolo

 

8 : 90 = x : 100

 

x = 8,88%

 

Se vendesse il pacchetto avrebbe motivo di chiedere un prezzo di 88,8 lire.

 

6.2. …essere vendute “a breve” sul mercato e, in tal caso, verrebbe introitato il controvalore

 

In questo caso la società incasserebbe il valore corrente delle “azioni proprie” e sostituirebbe il valore di carico tra le attività del bilancio con un equivalente monetario, così ripristinando la situazione ante acquisto. Però, se nella valutazione del “capitale economico” già si è tenuto conto, direttamente o implicitamente, del valore corretto attraverso una rettifica del valore di carico delle azioni proprie [11], l’incasso della vendita sarà all’incirca pari al valore di bilancio rettificato e, pertanto, non vi sarà alcuna variazione da proporre al valore dell’azienda. La % rappresentativa del singolo pacchetto non dovrebbe, in questo caso, essere rettificata, poiché è imminente la riconversione delle “azioni proprie” in attività liquide e il ripristino della base societaria del 100%. Se si valuta il problema dal punto di vista del cessionario di tutte le azioni in circolazione al momento della trattativa (90%), dopo la vendita sul mercato da parte della società delle “azioni proprie” (10%), dovrebbe spendere ulteriori 100 lire, su un valore globale di 1.000, per completare l’acquisizione del 100% del capitale società. In questo caso non sarebbe equo che al momento dell’acquisto del pacchetto dell’8% il cessionario dovesse rapportare il prezzo all’8,88%, poiché duplicherebbe l’esborso della quota proporzionale di “azioni proprie”. Un’analisi più approfondita di questo caso può far sorgere il dubbio che resti a beneficio dell’acquirente la quota proporzionale del “fondo acquisto azioni proprie” liberata dopo la rivendita delle azioni stesse da parte della società. Ma il dubbio non avrebbe motivo, se si considera che il fondo è già stato assorbito nel valore 1000 attribuito al capitale economico, sulla cui base l’acquirente del 10% paga il corrispettivo.

 

 

6.3. …essere portate, con annullamento, a riduzione del capitale sociale

 

Può aiutare la comprensione del fenomeno, l’ipotesi che l’aspirante cessionario del singolo pacchetto concluda l’operazione in un momento successivo alla delibera di riduzione di capitale da parte dell’assemblea straordinaria della società, ma prima dell’attuazione mediante annullamento delle azioni proprie.

Con questa ipotesi si realizza: la soppressione tra le attività del valore delle “azioni proprie” e per egual valore, tra le passività, di capitale sociale + eventuale quota del fondo. Si osserva che, in pratica, verrà fatto un articolo di P.D. del tipo:

 

(Capitale sociale + fondo riserva) a Azioni proprie

 

Le azioni annullate vengono distrutte e quelle residue in circolazione sono rapportate a un totale inferiore e, quindi, il singolo pacchetto aumenta di percentuale. Per esempio: se la società ha il 10% di “azioni proprie” e riduce il capitale annullandole, ne resta in circolazione il 90; l’azionista che detiene l’8%, dopo l’operazione passerà all’8,88%.

Se si fa un calcolo si determinerà l’8,88% su un patrimonio netto “formale” inferiore al “capitale economico” di un valore pari alle azioni annullate; il valore del singolo pacchetto sarà 88,8 rispetto al valore globale di 1.000. La correttezza della soluzione può essere vista anche in relazione al fatto che l’annullamento delle azioni in esecuzione di una delibera di riduzione del capitale sociale ex art. 2445 c.c., comporterà lo sblocco della “riserva azioni proprie”. Se si vuol realizzare l’equità tra cedente e cessionario si deve, in pratica, attribuirla al primo mediante la maggiorazione del prezzo, corrispondendo per l’8% l’equivalente dell’8,88%. Infatti, se il cessionario rastrellasse i pacchetti singoli pagando il valore proporzionale alle percentuali nominali (8% nell’esempio del singolo cedente), corrisponderebbe per il 90% rastrellato un prezzo di 900 per un capitale che vale 1000. Equità esige che spenda 1.000 per un capitale che ha valore 1.000, ma questo effetto finale lo si ottiene solo se il cessionario paga immediatamente 1000 ai cedenti del 90%, cioè maggiorando le percentuali dei singoli pacchetti in modo che la loro somma dia 100%. Nel caso del cedente dell’8%, l’8,88%, cioè 88,8 lire.

 

 

6.4. …essere distribuite con assegnazione gratuita agli azionisti

Dandosi questa ipotesi la società farà una operazione analoga alla precedente con la sola differenza che, invece di ridurre il capitale sociale+eventuale quota del “fondo riserva ”, ridurrà solo il “fondo di riserva”. Il patrimonio netto formale risulterà diminuito, ma la % singola risulterà aumentata per effetto della assegnazione di azioni gratuite. Per esempio al socio già detentore dell’8% sarà assegnato per azioni gratuite lo 0,88 e, quindi, passerà all’8,88%, per un valore di 88,8.

Per verificare la correttezza del ragionamento si faccia questa ipotesi:

esista una società per azioni che detiene il 10% e il restante 90% sia di proprietà di Bianchi. L’azienda venga stimata in blocco con criteri reddituali 1000 (valore del “capitale economico”). Se viene venduto l’intero pacco azionario, Bianchi incassa il valore del “capitale economico” dell’azienda, cioè 1000 pur avendo fatto la girata del 90% del capitale sociale. Se i soci fossero due, Bianchi e Rossi, ognuno per il 45% (che equivale a un 50% senza “azioni proprie”) e vendesse solo Bianchi, questi incasserebbe 500, pari alla metà di 1000. Non si vede perché dovrebbe essere diverso il trattamento per una quota minoritaria, come in esempio l’8%.

 

 

Bisogna ancora analizzare il paradosso del caso 2), in cui si nota che il valore del singolo pacchetto resta 80 e non viene corretto in 88,8. La spiegazione è così proponibile:

– se nei giorni antecedenti la cessione del pacchetto dell’8% la società realizzasse la vendita delle “azioni proprie” sul mercato (per ipotesi potrebbe essere ceduto allo stesso acquirente della somma degli altri pacchetti costituenti il complemento al 90% in circolazione e cioè 90-8=81), la base societaria del 100% sarebbe ripristinata, l’acquirente dell’intera azienda pagherebbe, alla fine e per somma, 1000 e il venditore dell’8% nulla avrebbe a pretendere più del corrispettivo di 80;

– se l’operazione fosse comunque programmata “a breve”, pur dopo la trattativa della cessione dell’8%, si verificherebbero le stesse condizioni del caso precedente.

Conclusivamente il paradosso si spiega considerando che le azioni proprie non spostano il valore del “capitale economico”, ma “qualcuno” potrebbe appropriarsi della % virtuale rappresentata dalle “azioni proprie”. Potrebbe essere il “rastrellatore”, potrebbero essere gli altri soci. Pertanto, fuori dei casi in cui la % viene “formalmente” corretta (dall’8 all’8,88%) per effetto della assegnazione gratuita o della riduzione del capitale sociale, la attribuzione del bonus proporzionale delle “azioni proprie” al detentore del singolo pacchetto è in funzione della capacità contrattuale o della fondatezza delle “ipotesi” e della probabilità della loro realizzazione. Non c’è, quindi, errore concettuale o di calcolo, trattandosi, invece, di fenomeno probabilistico o contrattuale.


[1] Una valutazione eccessiva può essere interpretata come violazione del principio di precisione, quindi in contrasto con l’obbligo della rappresentazione veritiera e corretta della situazione patrimoniale imposto dall’art. 2423, comma 2, cod. civ. Un caso di specie è stato trattato in sentenza Trib. Milano 15 maggio 1980, Giur. comm., 1981, II, 101, tuttora di valido riferimento, seppur emanata in costanza della normativa sul bilancio anteriore al D.Lgs. 127/1991.

[2] Gli amministratori devono porre attenzione all’avvisio di convocazione e alla informazione all’assemblea sulla materia “acquisto azioni proprie”, perché talune irregolarità comportano nullità della deliberazione, con conseguenze che possono assumere rilevanza penale. Cfr. sentenza della Corte di cassazione 3 settembre 1996, n. 8048, anche successivamente richiamata.

[3] L’alienazione di “azioni proprie” senza l’autorizzazione dell’assemblea è atto qualificato “annullabile” da Corte di cassazione in sentenza 1 aprile 1996, n. 3012.

[4] Si ricorda che con sentenza 21 febbraio 2000, n. 27, la Corte di cassazione Sez. Unite, consolidando precedente orientamento ribadito anche nella n. 8048/1996 cit., ritiene il bilancio privo di precisione caso rilevante di “false comunicazioni sociali” a sensi dell’art. 2621 cod. civ. Una scorretta appostazione in bilancio, rispetto all’art. 2424 cod. civ., delle “azioni proprie” acquistate pur con rispetto dell’art. 2357 cod. civ. può comportare, con la nullità, sanzioni per reato di false comunicazioni sociali.

[5] Con questa affermazione la Corte non si accorge di postulare la “necessità” di una rivalutazione permanente di tutti i beni, affinché il loro valore aggiornato possa “fornire un’indicazione significativa e riferibile alla data di chiusura del bilancio”. Si avverte l’influenza del concetto di “quadro fedele”.

[6] L’operazione è stata ritenuta legittima dal Tribunale di Trieste in sentenza 3 luglio 1987, commentata da: A. Astolfi, Ammissibilità del trading di azioni proprie, in “Giur. comm.”, 1988, II, pag. 124 e G. Capo, Trading di azioni proprie, trasparenza e tutela del mercato, ivi, 1990, II, 873.

[7] Cfr. F. Carbonetti, Acquisto di azioni proprie e «insider trading», in “Riv. soc.”, 1989, pag.1009.

[8] Si veda, anche per riferimenti storici, G. Carcano, Acquisto di azioni proprie come tecnica di difesa dalle scalate: la CEE rafforza il suo divieto, in “Riv. soc.”, 1992, pag. 1310.

[9] La ratio della citata sentenza della Cassazione n. 8048/1996 si legge in questo passo: « … tali presupposti paiono del tutto coerenti con la realtà di un fenomeno che pur sempre implica un impiego (non certo la neutralizzazione) dei valori monetari utilizzati per l’acquisto delle azioni proprie, le quali non cessano di costituire un valore esistente nel portafoglio della stessa società e possono, occorrendo, essere ricondotte ad espressione monetaria o trasformate in investimento di altro tipo per effetto di successiva alienazione. »

[10] Si segnalano in giurisprudenza: il decreto 3 ottobre 1997, con cui il Tribunale di Trieste ha dichiarato: « Non omologabile la delibera dell’assemblea straordinaria di una società per azioni che dispone la riduzione del capitale sociale mediante l’annullamento di azioni proprie, acquistate in precedenza dalla società nel rispetto della disciplina prevista dall’art. 2357 c.c., poiché configura una modalità di riduzione del capitale esuberante non riconducibile all’ipotesi tassativamente prevista dall’art. 2445 c.c. dell’eccedenza delle risorse rispetto al conseguimento dell’oggetto sociale e comporta la liberazione dal vincolo del capitale di risorse destinate allo svolgimento dell’esercizio sociale. » e sostanzialmente conformi Tribunale di Verona 20.1.1990; Tribunale di Verona 28.1.1988; Corte d’Appello di Genova 10.4.1987; Tribunale di Genova 3.2.1987. A mio avviso l’operazione a sensi dell’art. 2357 bis, n. 1, cod. civ., non è esclusiva, nel senso che nulla vieta che una società, che abbia in portafoglio “azioni proprie” possa deliberare “successivamente” la riduzione del capitale sociale mediante annullamento delle stesse, se la deliberazione assunta autonomamente a sensi dell’art. 2445 cod. civ. è oggettivamente motivata con la dimostrata esuberanza del capitale stesso in relazione alla restrizione dell’oggetto sociale.

[11] Questa ipotesi non è in contraddizione con la critica alla sentenza n. 8048 della Cassazione e non sottintende la sua accettazione, perché la “rettifica” può essere anche extracontabile.