Una domanda ricorrente di chi ama la lingua “del bel paese là dove il sì suona” (Dante, Inferno, XXXIII,80) è: come resiste l’italiano alle quotidiane aggressioni dell’inglese? Forse, si potrebbe rispondere con la domanda: come resiste l’inglese alle aggressioni dell’inglese? Perché la lingua di Shakespeare sta soccombendo più di altre all’imbastardimento imposto da quei barbarismi internazionali dilaganti diffusi dai veicoli di comunicazione di massa o meglio dai loro operatori cialtroni e ignoranti.

Non passa minuto senza che dal video non venga un ochei al posto di un “sì”, che è la parola più bella inventata dal linguaggio umano, perché “sì” implica amore, accettazione, empatia, ma anche ragionamento; tutte condizioni non richieste dal “no”.

Certo, anche l’italiano resiste come può, magari pagando un qualche tributo al cretinismo. Si pensi alla dilagante locuzione “assolutamente sì”. Il “sì” è già un assoluto e quell’avverbio appiccicato non è solo pleonastico, ma cretino.

Ve la immaginate la celebrazione del matrimonio, se alla domanda dell’officiante: « Vuoi tu Giovanni prendere Maria come legittima sposa…» il Giovanni di turno rispondesse: « assolutamente sì»? Scoppierei a ridere, se fosse almeno una bella giornata di primavera.

Contro questa malattia, quale terapia?

Consiglierei di leggere a voce alta almeno una volta al giorno, qual preghiera di breviario, il Capitolo XI del Convivio di Dante, padre di tutti noi parlanti la lingua del “sì” e maestro di petrosa chiarezza in ogni dire:

« A perpetuale infamia e depressione de li malvagi uomini d’Italia che commendano lo volgare altrui e lo loro proprio dispregiano, dico che la loro mossa viene da cinque abominevoli cagioni. La prima è cechitade di discrezione; la seconda, maliziata escusazione; la terza, cupidità di vanagloria; la quarta, argomento d’invidia; la quinta e ultima, viltà d’animo, cioè pusillanimità. E ciascuna di queste retadi ha sì grande setta, che pochi sono quelli che siano da esse liberi.

De la prima si può così ragionare. Sì come la parte sensitiva de l’anima ha suoi occhi, con li quali apprende la differenza de le cose in quanto elle sono di fuori colorate, così la parte razionale ha suo occhio, con lo quale apprende la differenza de le cose in quanto sono ad alcuno fine ordinate: e questa è la discrezione. E sì come colui che è cieco de li occhi sensibili va sempre secondo che li altri [il guidano, o] male [o] bene, così colui che è cieco del lume de la discrezione sempre va nel suo giudicio secondo il grido, o diritto o falso; onde qualunque ora lo guidatore è cieco, conviene che esso e quello, anche cieco, ch’a lui s’appoggia vegnano a mal fine. Però è scritto che «’l cieco al cieco farà guida, e così cadranno ambedue ne la fossa». Questa grida è stata lungamente contro a nostro volgare, per le ragioni che di sotto si ragioneranno, appresso di questa. E li ciechi sopra notati, che sono quasi infiniti, con la mano in su la spalla a questi mentitori, sono caduti ne la fossa de la falsa oppinione, de la quale uscire non sanno. De l’abito di questa luce discretiva massimamente le populari persone sono orbate; però che, occupate dal principio de la loro vita ad alcuno mestiere, dirizzano sì l’animo loro a quello per forza de la necessitate, che ad altro non intendono. E però che l’abito di vertude, sì morale come intellettuale, subitamente avere non si può, ma conviene che per usanza s’acquisti, ed ellino la loro usanza pongono in alcuna arte e a discernere l’altre cose non curano, impossibile è a loro discrezione avere. Per che incontra che molte volte gridano Viva la loro morte, e Muoia la loro vita, pur che alcuno cominci; e quest’è pericolosissimo difetto ne la loro cechitade. Onde Boezio giudica la populare gloria vana, perché la vede sanza discrezione. Questi sono da chiamare pecore, e non uomini; ché se una pecora si gittasse da una ripa di mille passi, tutte l’altre l’andrebbero dietro; e se una pecora per alcuna cagione al passare d’una strada salta, tutte l’altre saltano, eziandio nulla veggendo da saltare. E io ne vidi già molte in uno pozzo saltare per una che dentro vi saltò, forse credendo saltare uno muro, non ostante che ‘l pastore, piangendo e gridando, con le braccia e col petto dinanzi a esse si parava.

La seconda setta contra nostro volgare si fa per una maliziata scusa. Molti sono che amano più d’essere tenuti maestri che d’essere, e per fuggir lo contrario, cioè di non esser tenuti, sempre danno colpa a la materia de l’arte apparecchiata, o vero a lo strumento; sì come lo mal fabbro biasima lo ferro appresentato a lui, e lo malo citarista biasima la cetera, credendo dare la colpa del mal coltello e del mal sonare al ferro e a la cetera, e levarla a sé. Così sono alquanti, e non pochi, che vogliono che l’uomo li tegna dicitori; e per scusarsi dal non dire o dal dire male accusano e incolpano la materia, cioè lo volgare proprio, e commendano l’altro lo quale non è loro richesto di fabbricare. E chi vuole vedere come questo ferro è da biasimare, guardi che opere ne fanno li buoni artefici, e conoscerà la malizia di costoro che, biasimando lui, s[é] credono scusare. Contra questi cotali grida Tullio nel principio d’un suo libro che si chiama Libro di Fine de’ Beni, però che al suo tempo biasimavano lo latino romano e commendavano la gramatica greca per simiglianti cagioni che questi fanno vile lo parlare italico e prezioso quello di Provenza.

La terza setta contro nostro volgare si fa per cupiditate di vanagloria. Sono molti che per ritrarre cose poste in altrui lingua e commendare quella, credono più essere ammirati che ritraendo quelle de la sua. E sanza dubbio non è sanza loda d’ingegno apprendere bene la lingua strana; ma biasimevole è commendare quella oltre a la verità, per farsi glorioso di tale acquisto.

La quarta si fa da uno argomento d’invidia. Sì come è detto di sopra, la invidia è sempre dove è alcuna paritade. Intra li uomini d’una lingua è la paritade del volgare; e perché l’uno quella non sa usare come l’altro, nasce invidia. Lo invidioso poi argomenta, non biasimando colui che dice di non saper dire, ma biasima quello che è materia de la sua opera, per torre, dispregiando l’opera da quella parte, a lui che dice onore e fama; sì come colui che biasimasse lo ferro d’una spada, non per biasimo dare al ferro, ma a tutta l’opera del maestro.

La quinta e ultima setta si muove da viltà d’animo. Sempre lo magnanimo si magnifica in suo cuore, e così lo pusillanimo, per contrario, sempre si tiene meno che non è. E perché magnificare e parvificare sempre hanno rispetto ad alcuna cosa per comparazione a la quale si fa lo magnanimo grande e lo pusillanimo piccolo, avviene che ‘l magnanimo sempre fa minori li altri che non sono, e lo pusillanimo sempre maggiori. E però che con quella misura che l’uomo misura se medesimo, misura le sue cose, che sono quasi parte di se medesimo, avviene che al magnanimo le sue cose sempre paiono migliori che non sono, e l’altrui men buone: lo pusillanimo sempre le sue cose crede valere poco, e l’altrui assai; onde molti per questa viltade dispregiano lo proprio volgare, e l’altrui pregiano. E tutti questi cotali sono li abominevoli cattivi d’Italia che hanno a vile questo prezioso volgare, lo quale, s’è vile in alcuna [cosa], non è se non in quanto elli suona ne la bocca meretrice di questi adulteri; a lo cui condutto vanno li ciechi de li quali ne la prima cagione feci menzione.»

Ma che si può pretendere dai giovani, se i loro educatori sono i primi a bestemmiare! Che ne sa di Dante la giovane maestra elementare o, addirittura, il professore d’italiano del liceo classico, visto che anch’essi dicono ochei e assolutamente sì? Sono bravi a fare scioperi per riavere Darwin a tempo pieno nei programmi scolastici e non conta se l’evoluzionismo non sia intuizione originale di quell’osservatore, che la derivò dal francese Lamarck, e che di ciò che il pur rispettabile naturalista inglese ha sostenuto, i più capiscano poco, tant’è che ne hanno fatto un simbolo politico. Importante è avere uno straccio issato su una pertica come bandiera da seguire con dignità non maggiore di quella delle pecore dietro il campanaccio.

Il cervello è senza fissa dimora. Ochei?