Pietro Bonazza

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Il diritto dietro la maschera

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(articolo pubblicato sulla rivista “Il diritto fallimentare e delle società commerciali”, anno 2002, n. 5)

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1 – Premessa

 

I giuristi romani, che riflettevano nel diritto la scarsa propensione all’astrazione tipica della mentalità romana, evitavano di usare il termine “persona” per soggetti diversi dalla persona fisica e, quando dovevano riferirsi a un ente collettivo, finivano per non distinguere i rapporti giuridici dai suoi componenti. Per i romani la “persona” era l’uomo, inteso nella sua fisicità e individualità, come tale portatore di diritti e di obbligazioni. Indubbiamente il contesto storico non sollecitava analisi di espressioni riferite al collettivo, anche se ai romani non mancavano concetti, come: universitas, municipia, collegia, societas, che avrebbero potuto stimolare riferimenti a diritti e obbligazioni degli enti.

La loro eredità non ha mancato di pesare anche molti secoli dopo, quando la prima rivoluzione capitalistico-borghese del XIV secolo, con le compagnie mercantili toscane, e la seconda alla fine del XVIII, con le compagnie coloniali e le società commerciali, imposero un “diritto della persona giuridica”. Infatti, ancora oggi quando si tratta la “persona giuridica” si fa ricorso alla teoria della “finzione” e, si sa, la fictio iuris non era certo gradita al pragmatismo dei romani, per i quali le cose “erano o non erano”. I bizantini sarebbero venuti dopo. I levantini ancor dopo. Gli italiani, buoni ultimi, sono in grado di riassumerli tutti, fino alla confusione totale.

Oggi facciamo in diritto un uso corrente e forse eccessivo della parola “persona”, sia fisica e sia giuridica. Non so se la sua analisi genealogica potrebbe aiutare il diritto, ma certo può stimolare la curiosità. Almeno in questa ottica si può parlarne.

 

2 – Persona come maschera

 

Il codice civile non dà una definizione di “persona” e, allora, bisogna rifarsi al vocabolario: « individuo umano in grado di godere diritti.» Ma si deve ricordare che “persona” viene dall’etrusco phersu=maschera ed è stato trasferito nella lingua latina con persona=maschera usata dagli attori nella commedia. Quel significato etimologico è ancora attuale, perché la persona è la maschera dell’uomo; ciò che appare, rispetto all’interiorità, all’uomo vero e ignudo. L’opera teatrale di Pirandello è stata intitolata “Maschere nude”. E che cosa sono i “personaggi” della fiction, per esempio: televisiva, se non maschere? Sono le persone che consentono all’uomo di apparire, pur rimanendo nascosto dietro le maschere. Per capire il concetto bisognerebbe rifarsi alla filosofia dell’esistenzialismo del Novecento. L’uomo è l’ente che esiste, perché appare, ex-siste, “esce (ex) dal suo stare (siste)” per Ma, ciò che appare è solo la sua maschera, cioè la “persona”.

Se i romani attribuivano a “persona” il significato teatrale, come chiamavano il soggetto di diritto? Lo chiamavano homo, come si evince da questo principio fondamentale « hominum causa omne ius constitutum est », cioè l’intera organizzazione giuridica è destinata alla persona umana. Solo più tardi il termine persona si estese dal teatro al mondo del diritto, che è ancora teatro, come dice Shakespeare e come ognuno constata assistendo a un processo. Ma i romani usavano anche il termine caput, ovviamente al singolare, poiché per essi la persona era pur sempre quella parola di origine etrusca che designava una “maschera”, un mezzo per nascondere e che il diritto non poteva accettare incondizionatamente, né lo potevano manifestazioni di pensiero extragiuridico, come ben si legge in:

– Velleio Patercolo (19 a.C.-31 d.C.) , Historia romana, 2,30,3: « Invidiam rerum non ad causam, sed ad voluntatem personasque dirigere (Indirizzare gli apprezzamenti negativi non solo alla sostanza dei fatti, ma alle intenzioni e alle persone) e nel contemporaneo

– Seneca (5 a.C. – 65 d.C.), Epistulae ad Lucilium 24,13: « Non hominibus tantum sed rebus persona demenda est et reddenda facies sua » (non soltanto agli uomini, ma [anche] alle cose bisogna togliere la maschera e restituire ad esse il loro vero aspetto);

Osserviamo anche che la definizione del vocabolario parla di “individuo umano”. Ricordiamo che “individuo” viene dal latino in-dividuus=non divisibile, tutt’uno, unico e poiché questo si può dire anche di un qualsiasi animale, è necessario l’aggettivo “umano”. Ma se è unico (Giovanni Paolo II ha più volte affermato che ogni individuo umano è un fenomeno irripetibile) e non divisibile, vuol dire che è caratterizzato da particolarità, talché in esse debba essere distinto dagli altri. Cioè non deve essere confuso, poiché diversamente non potrebbe godere diritti. Se quel signore quarantenne con i capelli rossi, alto un metro e settanta, con i baffi ecc., che si chiama Pietro Bianchi e ha il codice fiscale ecc., si confondesse con Mario Rossi, come potrebbe godere diritti uti singuli? E anche se gode gli stessi diritti, ciononostante quelli che gli spettano, spettano a lui in quanto è “quel tal individuo”. Ma se è vero che “individuo” vuol dire non divisibile, il significato non è atomistico, cioè non significa che è solo. Se il nostro individuo fosse solo su un’isola deserta, che bisogno avrebbe mai di disporre di diritti? Chi gli potrebbe mai contestare di essere il signore dell’isola? Robinson Crusoe è homo oeconomicus, anche se è solo, perché deve realizzare un adeguamento di mezzi a bisogni, ma non è in-dividuus in senso giuridico. Un uomo solo su un’isola, che se ne fa di un codice civile, di un codice penale? Allora concludiamo con due osservazioni:

a) il diritto sorge quando l’individuo vive con altri individui; il diritto è lo strumento che rende possibile la societas; senza diritto non c’è polis;

b) ma senza polis non c’è nemmeno l’individuo; perché l’individuo, l’indiviso, è una realtà dialettica: può esistere, se esiste una comunità, cioè una pluralità. Ora, noi constatiamo che tra individuo e collettività, pluralità, comunità che dir si voglia, deve esistere uno scambio continuo, un rapporto dinamico, senza il quale la societas non sorge e non vive.

Ma, allora, chiediamoci perché individuo è persona, cioè maschera. Nel teatro antico, diversamente dal Pulcinella o dall’Arlecchino, la maschera è intera; l’attore non recita con mezza maschera; la maschera è in-dividua, in-divisa: così l’individuo. Questo discorso sembra un gioco di parole; invece è il fondamento della filosofia del diritto e della sociologia. Sul rapporto dialettico individuo-società, pur spiegato in sintesi, sta il significato del detto di Aristotele: “l’uomo è un animale socievole” e di quello del poeta inglese John Donne “nessun uomo è un’isola”. La “maschera” cela, perché non sostituisce, ma nasconde e nascondendo rinvia. Che c’è dietro la maschera? C’è il profondo. Ma il profondo è sempre e solo dell’uomo. Viene in mente un icastico giudizio di Nietzsche: « Tutto ciò che è profondo ama la maschera; le cose più profonde provano perfino odio per l’immagine e il simbolo. » [1] Nietzsche sembra esprimere un dualismo amore-odio. L’uomo, il profondo, si cela dietro la maschera, perché è lo strumento in grado di celare, ma nel contempo la odia, perché lo sostituisce. Sembra il rapporto uomo-ius: il diritto è una necessità, perché senza è il caos. Non è questa la radice del Leviatano di Hobbes?

Il concetto di “persona=maschera” è ancor più significativo per le società e gli enti collettivi in genere. Il diritto ha creato, con una geniale fictio iuris, la società di capitali (s.p.a., s.r.l, s.a.p.a.), che, però, non riuscirebbe ad agire nel mondo dei rapporti (diritti e obbligazioni), se non vi fosse un “qualcuno” che gli presta la sua materialità. Quel “qualcuno” è l’ “amministratore”. Così è chiaro perché vale la pena di insistitere sul concetto di “maschera”. Gli amministratori sono le “maschere” della società di capitali. Senza di esse non esisterebbe quel fenomeno o, quanto meno, la società di capitali non potrebbe operare concretamente nel mondo dei rapporti giuridici. Solo la finzione, che si sostanzia nella maschera, rende viva la società ed è chiaro che delle due teorie: quella della finzione e quella realistica, è più affascinante la prima, perché è l’unica che riesce a spiegare il motivo per cui quando la società deve rispondere di danni deve mandare avanti la sua “maschera” e perché sull’aspetto penale risponde solo la maschera, tant’è che secondo la Cassazione SS.UU., 14.12.1994, n. 10.680, la società non potrebbe nemmeno accollarsi le spese legali per la difesa dell’amministratore nel processo penale anche quando sia assolto perché incolpevole. La metafora della maschera è fondamentale per la teoria dell’amministratore “testa di legno”, cioè un caso di “maschera che si nasconde dietro un’altra maschera”.

 

 

3 – Dalla maschera al carnevale

Se i romani, convinti della sinonimia tra maschera e persona, evitavano questo termine in diritto, noi, che abbiamo perduto quella equivalenza di senso, usiamo tranquillamente la parola persona senza timore di confusioni. Perché? Probabilmente perché la parola “maschera” ci è pervenuta in via autonoma, o almeno così dicono gli storici della lingua., per i quali l’ingresso sarebbe avvenuto nel 1300, derivandola dal tardo latino, ormai corrotto come masca nel significato di “strega”. Nell’Editto di Rotari (643 d.C.), la raccolta di leggi di diritto longobardo, si legge: strigam, quod est mascam e forse non è un caso che nel dialetto piemontese e in quello ligure “strega” si dica tutt’oggi “masca”. Ma, considerando che il Mediterraneo, punto di arrivo e crocevia di popoli e storie, è stato da sempre un contenitore in cui si sono emulsionate civiltà e lingue di ogni genere, “maschera” potrebbe derivare dall’arabo, che indica maskharah per “caricatura, beffa”. Gli storici del linguaggio risalgono ben oltre, addirittura al preindoeropeo, che intendeva masca per “fantasma nero”.

Comunque la si voglia prendere o perché nasconde o perché oltre a nascondere ci offre una visione negativa di strega o fantasma, la maschera è comunque una barriera, ma anche un rinvio a un mito, al simbolo, a qualcosa di indicibile, che può essere detto solo con la metafora o con un ballo, a sua volta rappresentazione ed evocazione, come il carnevalesco di Mamoiada in Barbagia con i Mamutones, rivestiti di pelli, i volti nascosti dietro maschere lignee, rese più inquietanti dal suono monocorde dei campanacci, scossi dai passi di un ritmo misterico. Manifestazione ben più densa di significati di una allegoria da Carnevale, che anche quando si esprime nelle raffinatezze sulle calli di Venezia, non supera la mera ed estetizzante parata in costume, senza raggiungere nemmeno il folclore.

 

 

 

4 – Maschera come persona

Pirandello, oltre alle “Maschere nude”, ci ha dato con il “Fu Mattia Pascal” anche la persona senza maschera, oggi reperto archeologico, perché nel 1973 il nostro legislatore ha inventato il codice fiscale. Da allora, caro “Mattia Pascal”, non ti riesce più di essere “fu”, perché quella sequenza di lettere e numeri costituiscono la tua “cifra”; la tua piastrina di soldato, che consente il riconoscimento anche se ritrovano il tuo corpo disfatto alla fine della guerra; il tuo Dna impresso a fuoco sulla fronte, come il marchio del vitello della mandria a libero pascolo. Non puoi più nasconderti. Non puoi nemmeno dirti morto, se non viene un pubblico ufficiale a tagliare in quattro l’indistruttibile tesserino di plastica, che un eufemismo inglese ci fa chiamare card.

Umberto Zilioli, pubblicista bresciano, sostiene che il codice fiscale è preannunciato nell’Apocalisse, Cap. XIII, 16-17, ed è invenzione contro la persona. Osservo che essere “contro” implica ancora una possibilità di difesa, a prescindere dalle probabilità di successo. Si potrebbe andare oltre e dire che il codice fiscale “è” la persona e, allora, non c’è più possibilità di difesa, perché l’immedesimazione è così totale che per infrangere il connubio occorrerebbe un suicidio giuridico.

C’è qualcosa di angosciante in questa constatazione, soprattutto perché rinvia alle origini. Il codice fiscale è una “maschera” modernizzata e nemmeno tanto metaforica, che designa la nostra persona. Il diritto non lo riconosce espressamente, ma è una realtà di fatto: la maschera costituita da quel tesserino si è compenetrata con la persona, al punto che, senza, questa non può far valere i suoi diritti e si noti: senza distinguere tra fisica e giuridica, superando le classificazioni dei giuristi. I romani si opporrebbero. Persino risalendo al mito non troveremmo tanta compenetrazione. La masca dell’Editto di Rotari si è fatta striga e, ironia della sorte, qualcuno persino se ne compiace.

Tempi bui quando è la maschera che si fa persona. I romani lo sapevano. Ma indietro non si può tornare. Si può solo mitigare e questo è ancora di nuovo compito del giurista, come la ricerca, non ancora compiuta, dei più profondi significati giuridici del rapporto tra persona e maschera e di cui si gioverebbe la teoria generale del diritto dei nostri giorni, se non altro perché la maschera è lo strumento della finzione teatrale e anche della fictio iuris.

 

 

Pietro Bonazza


[1] F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, Roma, 1990, pag. 72.