In economia una causa raramente produce un solo effetto. Se è vero che viene in particolare evidenza un effetto particolarmente appariscente, ve ne sono di secondari da non trascurare, come, per esempio,  le “esternalità” negative. In politica economica, forse proprio perché è una sovrastruttura dell’economia, si suggerisce di assegnare a uno strumento  un solo obiettivo, nell’ipotesi che non possa esserne raggiunto più di uno. Questo spiega forse il motivo per cui alle banche centrali si affida solo il compito di controllo dei prezzi, cioè del tasso di inflazione, con lo strumento della politica monetaria. È sicuramente un progresso rispetto a ipotesi largamente affermate in passato, che assegnavano alla politica monetaria funzioni di controllo dell’inflazione e, contemporaneamente e contraddittoriamente, anche la crescita economica e la riduzione del tasso d’inflazione e della disoccupazione. Ma, l’abbandono di questa impostazione e l’affermazione dell’unicità dell’obiettivo, se si ha a disposizione un solo strumento, secondo la nota impostazione di Tinbergen, non esime dall’analisi degli effetti secondari, che ogni azione produce.

Ipotizziamo che l’unicità dell’obiettivo sia una politica saggia, quindi valida.

L’inflazione è un fenomeno monetario, e su ciò pare convengano ormai keynesiani e non, e, inoltre, la moneta non è direttamente tutta in mano alla banca centrale, perché esistono monete non in biglietti, come, per esempio, la circolazione creditizia e la moneta elettronica. Perciò, si è tornati a  dare credito prevalente allo strumento del tasso d’interesse, che sarà anche un vecchio arnese, ma, a quanto pare, è l’unico manovrabile con sicurezza dalla banca centrale.

In questi ultimi mesi la Bce, pur ammettendo che il tasso d’inflazione ha ormai varcato il tetto del 2%, continua a mantenere  all’1% il tasso base applicato alle banche operative, perché si ritiene che una misura più elevata potrebbe strozzare la ripresa economica.

Nel board di Francoforte siedono economisti applicati di vasta esperienza e si può fare affidamento sulle loro scelte, avendo certezza che al momento opportuno assumeranno le politiche migliori, date le circostanze e che lo strumento del tasso base d’interesse sarà usato con saggezza e tempismo.

Però, alcune considerazioni possiamo proporle.

I tassi d’interesse in un libero mercato possono essere imposti dalla politica monetaria solo a breve termine e il tasso “zero” non rilancia e non sostiene alcuna crescita, come la recente storia del Giappone ha dimostrato. Il capitale, cioè il risparmio, è un fattore della produzione che, come gli altri, deve essere remunerato. La Bce non solo sta mantenendo basso il tasso, ma continua a effettuare massicci acquisti di bond statali e così immette continuamente nel sistema liquidità, ma prima o poi dovrà drenarne l’eccesso. Questa politica non può certo giovare al tasso d’inflazione, né aiutare sostanzialmente la ripresa, che, seppur non turbolenta, è merito dell’economia reale e non della moneta. Basta leggere l’editoriale del Bollettino di febbraio della Bce, che, seppur quando parla di inflazione, come si è detto ormai oltre la soglia del 2%, e di tenue ripresa nel 2011 sembra camminare sulle uova, giustamente per non spargere allarmismo, afferma: «i livelli correnti dei tassi di riferimento della BCE permangono ancora adeguati e ha pertanto deciso di lasciarli invariati». Poiché l’inflazione cresce, significa che è venuto il momento, già noto in anni recenti, di considerare che il tasso d’interesse nominale non copre nemmeno la perdita del capitale per effetto della più elevata inflazione. Facciamo l’ipotesi che i risparmiatori, pur acculturati da recenti esperienze, accettino la perdita e chiediamoci se il credito a tassi di “saldo”, alimentato dalla liquidità creata dalla politica monetaria della Bce, affluito al mercato tramite la cinghia di trasmissione del sistema bancario, viene veramente richiesto dalle imprese. La domanda è: «il cavallo beve?». Qui sta il punto: il cavallo non beve o beve poco ed è quanto denuncia la stessa Bce nel Bollettino: «L’aggregato monetario ampio e i prestiti hanno continuato a registrare una crescita modesta».

Ciò dimostra che la ripresa non può essere affidata alla sola moneta o al credito. Se basta un punto percentuale in più per compromettere la ripresa significa che stiamo finanziando processi produttivi a basso valore aggiunto e di scarso contenuto tecnologico e allora per sopravvivere resterebbe solo da limare in continuazione il compenso per il lavoro e ridurre i consumi interni. Non è così che si esce dalle crisi, soprattutto se la causa è nella finanza.