Prima, durante e dopo. È venuto il momento di fare il punto. Mi riferisco ai rapporti causa-effetto tra le elezioni americane e l’andamento dell’economia internazionale. Il Bush, che ha un nome programmatico (in inglese significa “cespuglio”) dopo aver faticosamente strappato le elezioni (ma sarebbe il caso di scrivere “e-lezioni” dal latino e-ligere: strappare), affronta il “durante” preparando la squadra (in verità glie la sta confezionando il suo partito). Noi non possiamo rimanere indifferenti, perché quella scansione ci riguarda, come europei e come italiani, per quel fenomeno chiamato decoupling, un modo per dire, in economia finanziaria, che se la marea dei titoli sale sulla sponda europea dell’Atlantico scende su quella statunitense. Non si sa se sia una coincidenza, ma le elezioni del Bush sembrano coincidere con una svolta nell’economia internazionale, che poi significa in parole concrete: atterraggio più o meno morbido del dollaro, frenata dell’economia americana o quasi-recessione, continua discesa dei titoli di vecchia e nuova economia a Wall Street, cinghia per i consumatori americani, ecc. Qualcuno grida persino alla svolta decisiva (turning point per i reduci della London School, che prima li prende e poi ce li rende). Ricordiamo il “prima”. Tutti a sostenere, anche in America, che i due contendenti erano mezze calzette. In effetti senza né giudici, né avvocati (le due categorie vivono in necessaria e naturale simbiosi), pochi si sarebbero accorti che non si trattava di gladiatori. Però i profeti dell’economia erano divisi da una previsione per le ricadute sull’Europa: la vittoria di Bush, trattandosi di un repubblicano, quindi un nazionalista, per qualcuno un eufemismo di quasi-fascista, danneggerà più che Al Gore, un democratico sorridente, dal passo di uno che sembra camminare sulle uova e prometteva di scarpinare leggero anche sull’economia. Così gli europei, gli italiani in particolare, si sono messi a tifare questo simpaticone, che ha dimostrato di essere un duro della carta bollata. Ma si sa, anche in America i giudici “tengono famiglia” e così, quando hanno capito che gli yankee, già provati dalle performance di Clinton, avevano perso la pazienza, hanno mollato il pervicace democratico, però lasciando il dubbio che le elezioni le abbiano fatte le corti e non i seggi. Nel contempo qualcuno in Europa ha incominciato a ritirare i malloppi giacenti in America, vendendo dollari (azioni e obbligazioni) e chiedendo euro. Così il dollaro è calato e l’euro è cresciuto fino a risalire intorno a 0,90. Mancanza di fiducia nel biglietto verde, ma soprattutto paura per la prevista frenata della crescita esponenziale dei titoli tecnologici, solo perché le prospettive di reddito delle imprese del settore sono meno promettenti di alcuni mesi fa. Si dice anche che il Bush è alle prese con Greenspan (per modo di dire, perché Greenspan significa una “spanna di verde” e si associa benissimo al “cespuglio” e per chi crede alla combinazione è importante), al quale qualcuno già rimprovera di aver tenuto nei mesi scorsi una politica monetarista troppo rigida. Ma il tutore del dollaro e santone della crescita americana, sorriso da clown, guanto di velluto e cervello da Richelieu, non ci bada, perché un governatore che ascolta gli economisti e i consiglieri più o meno interessati, si trova come un pittore che ascolta i critici: smette di dipingere. Comunque, una cosa è certa: gli Stati Uniti hanno rappresentato, nel lungo periodo di crescita sbalorditiva, una forte domanda di beni interni, ma anche di beni esteri, giapponesi ed europei. Ora che il dollaro sembra scendere un qualche gradino, gli europei esultano, perché, pensano, così l’euro finalmente crescerà e l’economia del Vecchio Continente potrà prendere il volo. Può darsi che la prima speranza sia fondata, anche se non essendo stato ancora accettato come moneta di riserva e per transazioni internazionali, si possono nutrire dubbi sull’euro, nonostante la BCE giuri che è sottovalutato; ma, la seconda è certamente errata, perché nell’economia reale il decoupling non funziona. Se l’economia americana va in crisi, si può essere certi che quella europea la seguirà a ruota, perché una carrozza non può trasformarsi di punto in bianco in locomotiva. Infatti, che cosa è cambiato nelle strutture economiche e istituzionali nel periodo elettorale americano? niente. Ognuno si ritrova con gli stessi problemi di prima: gli Stati Uniti con l’enorme deficit commerciale e l’Europa con la vischiosità delle sue istituzioni sociali e l’assetto politico volto a difendere statalizzazioni di ogni genere (si pensi alla stasi delle privatizzazioni in Italia, Spagna e Francia e al nazionalismo economico tedesco) e un welfare insensibile alla demografia e alle proiezioni dell’economia reale. Il crollo del Nasdaq è fenomeno normale. Sempre dopo la ventata di novità si ripristina un equilibrio nuovo, che espelle le esagerazioni dell’euforia iniziale, ma si pone pur sempre a un livello più alto del precedente. Questo vale per l’economia americana che vive di fondato ottimismo da un decennio; non certo per l’Europa, che da sempre si culla in illusioni e contraddizioni. Intanto, guru, analisti, economisti, astrologi e profeti di varie specializzazioni si lanciano in previsioni per il 2001, dando anche i numeri dei prossimi Pil, quotazioni di monete, ecc. Ma l’economia vecchia e nuova non lo sa e continua per la sua strada, che è quella di sempre, con i suoi cicli, l’assorbimento degli errori degli uomini e i benefici delle loro illusioni, che rendono possibile l’impossibile. Se i profeti si accorgeranno che certe previsioni non si avverano, saranno pronti a dire, come sempre, che le borse avevano già scontato il fenomeno. Una ipotesi mi sembra fondata, anche se banale: il dopo “voto” dell’America di Bush sarà come prima, perché una macchina economica non si arresta per una elezione presidenziale o per uno scoramento di Wall Street; il dopo dell’Europa sarà come prima, perché al governo non ha né uomini di qualità, né volontà di cambiamento. Tirem innanz. Pubblicato anche in “ItaliaOggi” del 12 gennaio 2001.