Pietro Bonazza

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SOCIETÀ FIDUCIARIA E RAPPRESENTANZA ORGANICA

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(articolo pubblicato in “Il diritto fallimentare e delle società commerciali”, 1991, n. 1, I, pagg. 74 e segg.)

 

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1 – INTRODUZIONE

La presenza delle società fiduciarie nei rapporti so­cietari e nel mondo del risparmio ha determinato, negli ul­timi tempi, esigenze di un più preciso inquadramento dei contenuti contrattuali e di nuove norme idonee a regolamen­tare l’attività di amministrazione, soprattutto dinamica, in relazione alla tutela dei risparmiatori ed alla traspa­renza del mercato. La prima è stata affrontata, più sul piano pratico che dottrinale, con una tipizzazione del ne­gotium fiduciae, la seconda ha stimolato interventi della CONSOB per certificazioni di bilancio, relazioni periodi­che, obblighi di deposito di prospetti per sollecitazioni al pubblico risparmio e, sul piano legislativo, proposte di legge per una nuova regolamentazione dei soggetti esercenti l’attività fiduciaria.

Questa nota intende porre attenzione solo alla prima esigenza, limitatamente all’attività “statica”, sulla quale la dottrina è praticamente ferma ai tentativi di interpretazione dell’istituto nelle sue conno­tazioni “romaniste” e “germaniste”, che la pratica, con il conforto indiretto di alcuni autori dotati di senso pragma­tico, cerca appunto di superare con schemi “tipo”, alla cui formazione ha contribuito l’associazione di categoria.

Chi scrive non appartiene alla ‘corporazione’ [1] dei giuristi professionali e non ritiene di poter apportare contributi al problema di così grande importanza, di cui si dirà, e sul quale è sentito il bisogno di riflessioni scientifiche, che, qui, si cerca solo di stimolare.

In concreto si tratta di stabilire se la società fi­duciaria possa partecipare alle assemblee dell’emittente, delegando soggetti non appartenenti al proprio consiglio di amministrazione, stabilmente incaricati della funzione, senza incorrere nelle limitazioni dell’art. 2372 c.c., par­ticolarmente in quella prevista dal secondo comma. Un ope­ratore fiduciario, in termini ancora più pratici, ridur­rebbe la questione alla seguente domanda: può un funziona­rio di una società fiduciaria pretendere di partecipare alle assemblee delle società emittenti i titoli fiduciati, esibendo il mandato ricevuto a tempo indeterminato e per qualsiasi società e convocazione senza sentirsi eccepire una violazione dell’art. 2372 c.c.?

Si potrebbe subito tentare di semplificare il pro­blema affermando che la presenza della fiduciaria può es­sere un’inutile sovrastruttura, poiché il problema è in realtà quello più generale della legittimità, per una qual­siasi società, di conferire ad un proprio dipendente un mandato di rappresentanza svincolato dalla singola assem­blea. Ciò potrebbe essere vero solo dopo aver dimostrato che la società fiduciaria non subisce trattamenti partico­lari, mentre è certo, anche in via preliminare, che, affrontando il problema nell’ottica restrittiva della società fi­duciaria, l’eventuale conclusione positiva sarebbe automa­ticamente generalizzabile. Allora, è più conveniente af­frontare il tema nei termini del titolo di questa nota. Ciò implica una sequenza di argomentazioni del tipo:

– natura del rapporto fra fiduciaria e fiduciante;

– natura del rapporto fra fiduciaria ed emittente;

– natura del rapporto di rappresentanza organica;

– conclusioni.

2 – natura del rapporto fra fiduciaria e fiduciante

L’analisi della dottrina più citata e più autorevole sul tema del negotium fiduciae ingenera il sospetto che, nonostante le pregevolissime analisi anche di natura sto­rica [2] sulle origini e quindi sui contenuti dell’istituto, sia stato trascurato o quanto meno lasciato in ombra il fatto dell’esistenza della Legge 23 novembre 1939, n. 1966, quindi anteriore al codice civile e dalla significativa rubrica “Disciplina delle società fiduciarie e di revi­sione”. Considerare la presenza di quella legge consente di liquidare come inutile sforzo le discussioni, oggi un po’ meno insistenti, ma sempre in rischio di proposta, di ati­picità, assimilabilità al negozio simulato o al mandato senza rappresentanza, natura indiretta del negozio, per l’ovvio motivo che non può essere atipico, indiretto o ad­dirittura simulato, con la carica di negatività insita nel termine, se esiste una legge che, seppur non definendo il negozio, regola l’esercizio dell’impresa, che assume pro­fessionalmente e tipicamente l’attività di gestione del ne­gozio stesso [3].

È utile ricordare che con la legge istitutiva delle società fiduciarie si è voluto riservare a società regolate da particolari norme e soggette a specifiche autorizzazioni e controlli l’attività fiduciaria, proprio per togliere al negozio ogni necessità di simulazione per estrinsecarsi nei rapporti privati. Il successivo R.D. 29 marzo 1942, n. 239, seppur di dichiarata marca fiscale [4], offre, all’ultimo comma dell’art. 1, una chiara enunciazione che per il legi­slatore [5] la società fiduciaria detiene titoli azionari, di cui altri sono “effettivi proprietari”.

Con tale supporto normativo sembra veramente una ten­zone ‘scolastica’ la ricorrente ripresentazione delle con­trapposte tesi “germanista” e “romanista” [6], di cui, per l’economia di questo articolo e per osservazioni in nota, si vuol qui richiamare solo la estrema sintesi, che con difficoltà [7] si vorrebbe individuare, grosso modo, nella realizzazione o non della dissociazione tra proprietà e le­gittimazione: la “romanista” darebbe alla società fiducia­ria la completezza del rapporto, per cui il fiduciante van­terebbe un diritto di credito con particolari riflessi nell’eventuale momento patologico del rapporto, la “germa­nista” manterrebbe la scissione, quasi come una applica­zione del generale istituto del mandato senza rappresen­tanza. Non è forse un caso che la soluzione assestata del problema abbia coinciso con la necessità di approfondire il tema della applicabilità dell’intestazione fiduciaria alle quote di società a responsabilità limitata, prive di carto­larità e quindi di materialità delle stesse.

Ritengo conclusiva e condivisibile, anche per il senso di concretezza che la contraddistingue, l’affermazione di P.G. Jaeger in relazione alle due tesi [8]:

«… entrambe le nozioni di rapporto fiduciario sono parimenti legittime, dipendendo, in definitiva, la scelta fra l’una o l’altra di esse dalla volontà nego­ziale delle parti. »

La dottrina sembra quindi aver restituito alla vo­lontà delle parti la funzione di definire il contratto nella dinamica dei tempi e dei rapporti, sui quali co­struire l’istituto, con un minimo di senso empirico, ab­bandonando il vezzo del giurista latino di presentare il suo bel giocattolo giuridico, a cui possano adattarsi il comportamento e la scelta dei veri attori del negozio e “tanto peggio per loro” in caso di impossibilità. Come se messer Francesco Datini, per fare un esempio di un’epoca in cui i toscani erano gli anglosassoni del loro tempo, avesse dovuto attendere un giurista per inventarsi la cambiale [9]!

Ma la generalizzazione, almeno in senso statistico, della volontà delle parti si traduce nella contrattuali­stica più diffusa e nei comportamenti pratici delle società fiduciarie, che vanno prevalentemente nella direzione di un rapporto di tipo germanista, per cui è lontano dai fidu­cianti ogni intenzione di spogliarsi della titolarità dell’azione, mentre risponde ad una precisa volontà lo spo­stamento, spesso “guidato”, della legittimazione del titolo azionario.

In conclusione si deve osservare che la dottrina è spesso caduta in un errore di generalizzazione degli og­getti del contratto fiduciario, assorbendo nel genus “ger­manista” oppure “romanista”, scelto come unico in funzione di un preconcetto, la species titoli azionari, per la quale è prevalente l’intenzione del fiduciante di continuare a mantenere la posizione di socio sostanziale agendo per mezzo di quella figura professionale riconosciuta dal legi­slatore che è la “società fiduciaria” e senza alcun bisogno di simulare alcunché. La conclusione potrebbe avere ri­flessi sull’art. 2372 c.c., ma, come si vedrà, essi sono esclusi proprio dalla presenza di un soggetto inserito dal legislatore nel mondo degli affari in alternativa alla si­mulazione.

3 – natura del rapporto fra fiduciaria ed emittente

Il capitolo precedente non avrebbe alcuna utilità se non per trarre la conclusione nei confronti dell’art. 2372 c.c. Infatti, per l’emittente non si pongono nell’ordinamento italiano problemi di analisi del tipo di rapporto che lega il fiduciante al fiduciario, per il sem­plice motivo che il suo socio è semplicemente colui che ha la legittimazione, essendo questa, per quanto lo riguarda, assorbente della titolarità [10]. Piaccia o no, questa è la volontà che fiduciante e fiduciario hanno voluto raggiun­gere e finché il negozio sarà riconosciuto meritevole di tutela da parte dell’ordinamento, ogni discussione sarà inutile e per l’emittente il socio sarà sempre e solo il soggetto che è iscritto nel libro dei soci e che porta le­gittimamente il titolo. È da condividere l’affermazione del Di Maio [11] che:

« A nessuno può venire in mente che il portatore di un titolo azionario o di una quota di parteci­pazione in una società a responsabilità limitata regolar­mente iscritto nel libro dei soci ed intestatario del ti­tolo azionario per girata autentica possa avere delle limi­tazioni negoziali. »

Pertanto, per l’emittente non esistono intestazioni fidu­ciarie, nel senso che, anche quando sono note o facilmente intuibili dall’oggetto sociale della società che “ammini­stra” i titoli, il rapporto con esse si svolge con assoluta mancanza di discriminazioni.

La conclusione anticipata nel capitolo precedente in relazione alla natura di perfetta legittimità del pactum fiduciae può qui essere ripresa ed irrobustita dalle ulte­riori considerazioni esposte, per cui la società fiduciaria non interviene alle assemblee dell’emittente in veste di rappresentante, ma a titolo proprio ed originario, ancorché vi sia una derivazione interna, che, però, resta estranea per l’emittente. L’art. 2372 c.c. non si applica alle so­cietà fiduciarie nel rapporto con l’emittente in termini diversi dalle applicazioni riservate a qualsiasi altro so­cio, sia perché il pactum fiduciae è privo di elementi psi­cologici negativi, quali ad esempio quelli tipici della si­mulazione, sia perché al pactum l’emittente è comunque estraneo [12].

4 – NATURA DEL RAPPORTO DI RAPPRESENTANZA ORGANICA

Ricondotto nell’ambito della normalità il rapporto fra società fiduciaria ed emittente resta da considerare il problema generale della rappresentanza del socio in assem­blea, soprattutto con riferimento all’applicazione del se­condo comma dell’art. 2372 c.c., norma la cui applicazione non può prescindere dalla soggettività dell’azionista, se­condo che sia persona fisica o giuridica.

In riferimento ad una persona fisica con piena capa­cità di agire, quindi in grado di avvalersi di una rappre­sentanza meramente opzionale, la norma non offre diffi­coltà interpretative e la rappresentanza deve essere data per singole assemblee, con i vincoli inderogabili dettati dal quarto comma e gli ulteriori, eventualmente previsti dallo statuto, come ad esempio la riserva della delega solo ad altri soci. Nemmeno il conferimento di una procura gene­rale ad negotia può consentire deroghe, come ha affermato la Corte di cassazione con sentenza 20 luglio 1988, n. 4709 [13].

Difficoltà sorgono in presenza di soci persona fi­sica incapace o persona giuridica, per i quali la rap­presentanza diventa necessaria, talché, salvo rendimento di conti od altri rapporti interni tra rappresentante e rap­presentato cui l’emittente è estraneo, il rappresentante si presenta nei confronti di quest’ultimo come l’azionista a titolo originario, poiché il rappresentante è colui che consente al socio imperfectus di esprimere la propria natura con le obbligazioni e tutti i diritti, personali e patrimoniali, con­nessi. Si potrebbe concludere che il secondo comma dell’art. 2372 c.c. non si applica nei casi in cui la rap­presentanza è il solo mezzo “giuridico” per esprimere la presenza del socio, quando cioè, usando un bisticcio di pa­role, il rappresentante non è rappresentante, perché la rappresentanza gli viene come conseguenza di una “supe­riore” figura, che può essere di tutore o curatore o inca­ricato di una funzione organica. Si tratta di casi in cui la rappresentanza si pone con la funzione in termini di tale “necessità” che, ove venisse negata o rifiutata al soggetto incaricato, risulterebbe irrealizzabile il fine superiore che il legislatore ha riconosciuta alla figura del “prestatore di personalità”. Rimanendo nel caso della persona fisica incapace si dovrebbe ritenere pacifico che il rappresentante legale del socio minore azionista non deve munirsi di una delega per ogni singola assemblea e che non si applicherebbe, ove lo statuto sociale lo preve­desse, l’obbligo di dare la delega ad altro socio, poiché per l’emittente il rappresentante è il socio, seppur pre­sente per altra persona, per un legame che, con prestito dalla teologia, si potrebbe chiamare di “comunione giuri­dica” [14].

Ad analoghe conclusioni si perviene nel caso di azio­nista persona giuridica. In questo caso la rappresentanza attribuita alla persona fisica è detta “organica”, perché l’ente, essendo una mera invenzione del diritto, non potrebbe esprimersi nel mondo degli atti e dei fatti giuridici se non tramite la persona fisica, che, nei confronti dell’ente opera come suo “organo”. È pacifico per la giu­risprudenza [15] che ad un amministratore di società mem­bro del consiglio di amministrazione di una partecipata non si applicano i divieti del quarto comma dell’art. 2372 c.c., né, per ulteriore esempio, il divieto di votare il bilancio che ha partecipato a formare, perché, si dice, il soggetto ha la rappresentanza organica.

Ma è opportuno chiarire che l’aggettivo “organico” deve essere inteso in senso lato e non come qualificazione di “organo”. Infatti l’amministratore di una società, che non soffre i divieti ricordati in quanto ha la “rappresen­tanza organica”, non è “organo” della sua società, nemmeno quando ne è il presidente. Organi, in senso giuridico sono solo il consiglio di amministrazione o l’amministratore unico. Nemmeno il consigliere delegato è “organo” [16] . Non si deve nemmeno ritenere, per quanto sia ovvio, che rappresen­tanza organica significhi rappresentanza dell’organo, poi­ché è pacifico che è sempre e solo rappresentanza dell’ente. Sganciato il concetto di organico da quello di organo e definita la rappresentanza organica come l’istituto che consente alla finzione giuridica ente di estrinsecarsi come realtà, resta il problema fondamentale di stabilire il livello della rappresentanza organica e, quindi, della sua “esclusività”.

Pare evidente che se la rappresentanza organica è ri­ferita all’ente e non all’organo si deve sempre trattare di un “primo livello”, cioè sempre di una rappresen­tanza originaria, mai derivata e perciò stesso “esclusiva” nel senso che nell’ente non può mai verificarsi la doppia rappresentanza concorrente. Non deve poter accadere che vi siano due persone che entrambe prestino sé stesse per rea­lizzare l’ente in termini tali che possano compiere contem­poraneamente atti contrastanti. Per fare un esempio non si possono ipotizzare due direttori generali [17], non due consi­glieri delegati con la stessa delega, non due presidenti. Non è un caso che il codice civile abbia ignorato la figura del vicepresidente e che quando è prevista dagli statuti sia possibile affermarne solo la funzione vicaria e non concorrente. Non è solo una applicazione del principio di non contraddizione nei confronti dell’ente, ma, soprat­tutto, è il rispetto dell’affidamento dei terzi.

Il concetto di “esclusività”, che è una conseguenza di quello di “originarietà”, non comporta però – ed è essen­ziale – la “fissità”. In altri termini: la rappresentanza or­ganica, proprio perché esclusiva ed originaria, consente la traslazione su più soggetti, alla condizione che gli stessi la possano ricevere con quegli inderogabili caratteri. Il problema è semmai nella verifica delle modalità della tra­slazione. L’asse normale stabilito dal legislatore consiste nella previsione di un organo volitivo (assemblea) che in­sedia periodicamente e dialetticamente (maggioranze e mino­ranze) un organo collegiale o individuale, istituzionalmente preposto all’amministrazione [18], al quale è riservata la funzione (si noti: non la facoltà) di realizzare gli scopi sociali, mediante atti, che, quando debbono avere evidenza esterna, sono compiuti materialmente e quindi formalmente da colui che, presiedendo l’organo, ne esegue anche la sintesi dialettica. Ma il legislatore con l’art. 2381 c.c. ha anche consentito all’organo istituzionale e depositario del po­tere originario ed esclusivo di espropriarsene delegandolo ad altri, trasmettendone anche il livello [19].

L’autoespropriazione può essere per un singolo atto o una serie di atti e mai definitiva, nemmeno nell’ambito della sua massima possibi­lità, che coincide con la durata in carica dell’organo [20]. Sorgono così figure di delegati che possono essere soggetti appartenenti o estranei all’organo. La delega per il sin­golo atto non è interessante per gli scopi di questa nota, per l’ovvio motivo che realizzerebbe comunque le condizioni del secondo comma dell’art. 2372 c.c. Interessante è invece verificare il caso di una autoespropriazione “stabile” della funzione di rappresentare la società nelle assemblee di altre società. Pare non vi siano dubbi nei confronti di un amministratore delegato, nei cui poteri sia stata previ­sta tale funzione. Dubbi potrebbero sorgere nel caso in cui la funzione sia stata conferita ad un dipendente (anche il direttore generale lo è), ma i dubbi si superano se si con­sidera che la delega sia in termini di esclusività. Il sog­getto che la riceve più che una delega ottiene una investi­tura, seppur limitata a quella serie di atti, nel senso che ricevendo una funzione che nessun altro ha, nella sua esplicazione non rappresenterà l’organo ma sarà lui stesso l’ente in una funzione che non può che essere quella orga­nica ed originaria. Non conta allora la personalità sogget­tiva del “rappresentante organico”, sia esso amministratore o dipendente od anche estraneo [21], né ha rilievo il fatto che la rappresentanza gli pervenga da un organo depositario del potere di conferire ed anche di revocare, perché ciò conferma la con­dizione di “necessità” della “esclusività”.

Se così non fosse il problema sarebbe già risolto in termini negativi, nel senso che l’unica rappresentanza or­ganica possibile sarebbe solo quella del presidente dell’organo, ma si ritiene che questa soluzione non possa soddisfare nemmeno i più strenui difensori della interpre­tazione ristretta e letterale del secondo comma dell’art. 2372 c.c.

 

 

5 – CONCLUSIONE

Se le argomentazioni esposte nel precedente capitolo sono corrette si può concludere che è consentito ad una so­cietà delegare il potere di rappresentanza continuativa in assemblee di partecipate anche ad un “funzionario”, alla sola condizione che nell’atto di delega sia esplicitamente affermato il carattere di “esclusività” di tale rappresen­tanza, talché possa essere posta l’equivalenza di questo carattere con quello di “organicità”. In tal caso la so­cietà partecipata non potrà opporre al portatore di tale rappresentanza “organica” l’eccezione di specificità di de­lega per ogni singola assemblea nei termini previsti dall’art. 2372, comma secondo, c.c., né potrà opporre le limitazioni previste dal quarto comma od altre dettate dallo statuto sociale che siano riferibili alla personalità del rappresentante.

Se le argomentazioni esposte nel terzo capitolo sono pure corrette si potrà affermare, come ulteriore conse­guenza, che le società fiduciarie possono mandare propri funzionari, muniti di delega permanente, a rappresentare la società stessa nella assemblee dell’emittente, a cui il pactum fiduciae è estraneo, a prescindere dalla sua conno­tazione romanista o germanista. Una diversa soluzione ren­derebbe pressoché impossibile, in concreto, l’attività delle società fiduciarie, ciò che può non essere un argo­mento di natura giuridica, anche se il legislatore le ha regolate perché possano esplicare la loro attività in ter­mini di normalità. Importante e a mio avviso risolutivo, è il fatto che nel mondo del diritto gli enti con personalità giuridica, peraltro in numero crescente, possono esplicarsi attraverso manifestazioni di atti formali il cui riferi­mento all’ente è un fatto di necessità, che nella evolu­zione del diritto, imposta dal dinamismo degli affari, deve essere riguardata nella sua realizzabilità per funzioni e non solo per definizioni, che rischiano la perdita di si­gnificato.

La previsione statutaria della possibilità di delegare la rappresentanza organica alle condizioni sopra esposte può costituire un rafforzativo di notevole importanza pratica per una soluzione positiva del problema, ma non dovrebbe costituire una condizione essenziale, perché la devoluzione è, almeno in astratto, desumibile all’attuale sistema.

Pietro Bonazza

 


[1] Ovviamente, uso il termine “corporazione” in senso lato e non ironico e l’aggettivo “professionale” nella sua più vasta accezione, che esclude solo il “dilettante”.

[2] Anche solo per mera esercitazione mentale è stimo­lante simulare il diverso tipo di approccio ad un negozio non definito legislativamente di un giurista della common low rispetto al collega di formazione latina, che non sem­pre riesce a liberarsi della necessità di nobilitare la sua esegesi con argomentazioni risalenti almeno a Giustiniano, così trasformando in un limite la forza della sua cultura. Lo schema mentale del giurista latino risente ancor oggi della impostazione scolastica, ciò che porta ad una diffi­coltà ad affrontare il problema sul piano meramente pragma­tico, come impone l’esigenza di un diritto commerciale, che rappresenta, oggi, la componente più dinamica di un ordina­mento. Basti pensare alle secche su cui si sono insabbiate per anni la dottrina e la giurisprudenza italiane sul con­tratto di leasing, quando sarebbe bastato affrontare imme­diatamente il problema dalla visuale della sentenza della Cassa­zione 6 maggio 1986 n. 3023, in cui il problema, anziché con pericolose e forzate analogie, viene risolto in riferi­mento ai peculiari obiettivi del contratto, ancorché ati­pico, ma portatore di interessi meritevoli di tutela.

Forse oggi il pericolo è meno attuale, ma è sempre utile ricordare il giudizio del prof. Michel Villey, accademico francese, che nel 1975, quindi pur dopo il vento rivoluzio­nario del “sessantotto”, scriveva in La formazione del pensiero giuridico moderno, (Milano, 1986, pag. 321), com­mentando il pensiero del secentista Suarez:

« Le opere di Suarez mantengono la tradizionale forma scolastica: su ogni argomento vengono in primo luogo esposte le opinioni contraddittorie della dottrina pre­cedente, che vengono poi discusse una per una, e infine dopo questo lungo confronto appare la soluzione finale di Suarez stesso. Apparentemente si tratta dello stesso metodo di Abelardo e di San Tommaso, quello del sic et non. Ma basta aprire un libro di Suarez per vedere su­bito le differenze; San Tommaso pone a confronto un piccolo numero di autori, scelti in funzione dell’interesse che la loro tesi ha per il problema im­mediato più che per la loro “autorità”; in Suarez in­vece la lista si allunga a dismisura. Egli non ci fa grazia nemmeno di una sola tesi già proposta in prece­denza; all’inizio di ogni corso siamo costretti a su­bire l’esposizione di tutte le dottrine professate an­teriormente sullo stesso argomento; insomma, egli si mostra già abilissimo maestro di quel metodo detesta­bile, tipico delle nostre deformazioni universitarie, che consiste nell’interessarsi, più che all’argomento, a ciò che hanno scritto su di esso i baroni universi­tari. Conoscete benissimo tutti questa tecnica; da parte mia sono convinto che al giorno d’oggi le facoltà praticano il culto della “autorità”, più di quanto non si facesse nel XIII secolo e con molta maggiore stupi­dità. »

[3] Novissimo Digesto Italiano, Torino, 1980, vol. XI, pag. 203.

[4] L’origine fiscale del provvedimento è chiaramente enunciata negli atti parlamentari.

[5] Si ripropone in proposito il ricorrente problema della idoneità del diritto tributario a definire categorie valide per altri rami del diritto, in mancanza di defini­zioni ge­nerali o di altre particolari. La risposta di Giu­seppe Ca­pograssi in Il problema della scienza del di­ritto:

«... essendo il diritto un tutto, i concetti per essere adeguati debbono essere concetti relativi a questo tutto […] il diritto è un mondo unitario e [che] per conse­guenza il lavoro scientifico deve essere adeguato a questa profonda ed organica unità... »

è ripresa, implici­tamente, da Nicola D’Amati, Criteri normativi per la de­terminazione del reddito d’impresa, in “Bollettino Tribu­tario d’informazioni”, n. 20/1989. Questo Autore, dopo aver ana­lizzato i rapporti fra norme civilistiche e tributarie in tema di bilancio e di reddito ed aver riconosciuto setto­riali finalità, afferma a pag. 1531:

« Ciò, peraltro, non altera il sistema giuridico nella sua unità, in quanto co­stituisce una forma di coordinazione dei principi gene­rali (e, perciò, comuni) con le esigenze dei settori partico­lari. »

[6] Per una estesa bibliografia sul tema si vedano F. Di Maio, Il contratto fiduciario, Milano, 1979 e P.G. Jaeger, Sull’intestazione fiduciaria di quote di società a respon­sabilità limitata, in “Giurisprudenza commerciale”, 1979, I, pagg. 181.

[7] La lettura e l’interpretazione dei testi comparati degli au­tori non sono agevoli per il comune lettore, non si sa se per eccessiva finezza delle trattazioni, per discordanza di finalità o per la condizione di ‘comune’ di quello.

P.G. Jaeger, Sull’intestazione fiduciaria di quote di so­cietà a responsabilità limitata, in “Giurisprudenza com­merciale”, 1979, I, a pag. 203, dopo un’interessante espo­sizione di diritto comparatistico sulla fiducia germanista, così conclude:

« Naturalmente, come ho già detto e ripetuto (ma un’ulteriore ripetizione può essere giustificata dall’obbiettiva difficoltà della materia), questa co­stituisce soltanto una delle alternative aperte alla scelta delle parti, essendo l’altra (fiducia romanista) costituita dall’attribuzione della legittimazione as­sieme alla titolarità, nel qual caso il negozio sotto­stante deve essere un contratto traslativo della pro­prietà (negozio fiduciario, per chi accoglie l’opinione che riconosce tale idoneità alla causa fiduciae). »

Invece, la mancata precisazione di concetti preliminari oppure il mancato rinvio all’analisi della volontà delle parti tradotta nel pactum fiduciae, porta, ad esempio, un autore, abitualmente chiaro, come M. Casella a generalizzare in “Impresa e società”, Milano, 1983, pag. 87:

« La società fiduciante dovrebbe, quindi, appostare il suo diritto nei confronti del fiduciario nella voce “altri crediti” (ché appunto di un diritto obbligatorio si tratta), valutandolo secondo il doveroso prudente apprezzamento, che, nella specie, è quello dettato per la valutazione delle partecipazioni. »

Si legge ancora di L. Corsini, Società fiduciarie e possesso azionario, Milano, 1989, pag. 37:

« In ogni caso, a causa del contratto di mandato, anche se senza rappresentanza, il diritto di proprietà sui beni fiduciati rimane al soggetto fiduciante e si trasferisce alla società fiduciaria solo per l’attimo necessario al compimento dell’atto oggetto del mandato; nell’ipotesi, ad esempio, di una posizione a vendere, la proprietà del bene si trasferisce dal fiduciante alla società fiduciaria solo per l’attimo necessario al compimento del trasferimento del bene al terzo…»

Ma non è una questione di attimi !

[8] Sull’intestazione fiduciaria di quote di società a responsabilità limitata, in “Giurisprudenza commerciale”, 1979, I, pag. 188.

[9] Perde significato, se si accetta tale principio, la questione dell’adeguatezza della causa fiduciae a costi­tuire l’unica causa del negozio stesso. La discussione è richiamata in “Novissimo Digesto Italiano”, Torino, 1980, Vol. XI, pag. 206.

[10] Ricorda F. Di Maio, cit., pag. 32 che: « Da noi infatti non vige, come nel diritto anglosassone, l’obbligo per le fiduciarie (le trust companies ) di denunciare che intervengono come fiduciarie, “as trustee” secondo la ter­minologia anglosassone. »

[11] Cit., pag. 32.

[12] Crea perplessità la conclusione di P.G. Jaeger, La nuova disciplina della rappresentanza azionaria, in “Giu­risprudenza commerciale”, 1974, I, pag. 574. L’autore, dopo aver trattato della girata per procura regolata nell’ultimo comma dell’art. 2372 c.c. e giustificato la norma nel suo intento di impedire l’aggiramento dei divieti di rappresentanza, sog­giunge:

« Piuttosto la disposizione può assumere, ci sembra, notevole importanza per colpire uno strumento ben più insidioso che potrebbe essere usato per eludere le norme imperative che vietano a determinati soggetti di assumere la qualifica di rappresentanti, e cioè l’intestazione fiduciaria dei titoli. Qualora si rie­sca a dimostrare (il problema di prova è evidentemente, qui come altrove, il più grave) che il trasferimento delle azioni è avvenuto, sì, come girata piena e iscri­zione del giratario nel libro dei soci, ma con un patto in­terno limitativo, in forza del quale è stabilito che il trasferimento stesso avviene soltanto per attribuire la legittimazione al voto al giratario stesso, mentre il girante conserva la proprietà del titolo e i diritti relativi, i divieti in esame devono essere applicati anche all’azionista fiduciario. Questa soluzione è con­fermata da un’indagine di diritto comparato. Negli or­dinamenti che fanno oggetto il fenomeno in questione di specifiche disposizioni di legge, è espressamente pre­visto che le norme in tema di rappresentanza si appli­cano al trasferimento dei titoli a scopo di legittima­zione. »

Si osserva che lo scritto citato è anteriore di due anni a quello Sull’intestazione fiduciaria di quote di società a responsabilità limitata e non è da escludere un ripensa­mento dell’autore che, a mio avviso, ha meglio sviluppato il proprio pensiero nel secondo articolo. Tuttavia in un “germanista” convinto da antica data è difficile, senza violentare la coerenza, giustificare la conclusione di un divieto affermabile con il possesso di prove, seppur diffi­cili. A mio avviso non è un problema di prove, perché non è un problema di simulazione, preconcetto di cui l’autore pare non essersi liberato. La società fiduciaria è socio a titolo “originario” nei confronti dell’emittente e l’indagine delle intenzioni psicologiche del pactum fidu­ciae non dovrebbe nemmeno essere consentito, pena contrad­dire l’istituto voluto dalla Legge 23 novembre 1939, n. 1966 per “amministrare”, fra l’altro, titoli azionari con diritto di presentarsi nel mondo esterno ai contraenti come una legittimazione assorbente la titolarità. Inoltre, si osserva che quando il legislatore ha voluto considerare le società fiduciarie come destinatarie di divieti lo ha espressamente previsto, come, ad esempio, nelle modifiche apportate con il D.P.R. 10 febbraio 1986, n. 30, così rea­lizzando un ubi voluit dixit, ubi noluit tacuit. Privo di consistenza è poi il riferimento al diritto comparato, che, come si deduce dall’art. 12 delle Preleggi, non interessa il giurista applicato, ma solo lo studioso di affinità e divergenze, talvolta al limite della curiosità.

[13] La sentenza, che, a mio avviso, offre il rischio di erronee generalizzazioni al di là dello specifico caso trattato, ha destato interesse in dottrina con interventi di U. Carnevali in “Le società”, 1988, pag. 1030, V. Salafia “Limiti di rappresentanza del socio in assemblea”, ivi, 1989, pag. 1017 e R. Sacchi “Procura generale e disciplina (legislativa e statutaria) della rappresentanza azionaria”, in “Giurisprudenca Commerciale”, 1989, II, pag. 23.

[14] Di diverso avviso è R. Sacchi, cit., pag. 39, che afferma:

«… se la clausola dell’atto costitutivo prevede che solo i soci possono essere rappresentanti nell’assem-blea della società, la sua applicazione alla rappresen­tanza legale impone che come rappresentante legale del socio sia designato un altro socio. Ancor più grave, poi, è l’applicazione alla rappresentanza legale della clausola statutaria che vieta radicalmente la delega. In tal caso, al socio incapace di agire è preclusa sia la partecipazione diretta all’assemblea, per la sua in­capacità di agire, sia la partecipazione indiretta me­diante rappresentante legale, in conseguenza della clausola dell’atto costitutivo.

Pur nella forte opinabilità della questione, parrebbe comunque preferibile che anche in ipotesi di rappre­sentanza legale prevalga l’esigenza organizzativa della società validamente recepita nell’atto costitu­tivo. «

[15] La dottrina prevalente e la giurisprudenza sono orientate nel senso di superare l’art. 2372 c.c. in presenza di rappresentanza organica. Si veda da ultimo Tribunale Milano 21 maggio 1981, in “Giurisprudenza commerciale”, 1982, II, pag. 217, con commento di R. Sacchi “Art. 2372 c.c. e rappresentanza organica”.

[16] Si sostiene talvolta che il direttore generale nominato dall’assemblea a sensi dell’art. 2396 c.c. diviene “organo” della società. Mi sembra ancora pienamente valida l’osservazione di G. Ragusa Maggiore “Sulla figura del direttore generale”, in “Diritto fallimentare”, 1971, II, pag. 777 :

« Se però i direttori generali possono ricevere limitati poteri di rappresentanza è certo che non possono essere un organo.»

[17] Tribunale di Milano decreti 23 dicembre 1970 e 18 maggio 1971; Corte appello Milano 23 ottobre 1971. Anche Tribunale Torino, in “Rivista Società”, 1972, pag. 512 e 1326.

[18] Il tema è stato trattato in un convegno trentino organizzato dal Consiglio Nazionale del Notariato. Si veda la sintesi giornalistica di M. Cannata, “È inutile nascondersi dietro l’assemblea”, in “Italia oggi” del 7.10.1988.

[19] La delega della rappresentanza “organica” è una figura tipica del diritto amministrativo, soprattutto delle aziende municipalizzate e delle sedi periferiche degli istituti previdenziali, come si evice dalle sentenze della Cassazione 9 febbraio 1962 n. 281, 31 luglio 1967 n. 2033, 11 gennaio 1984 n. 212, 26 marzo 1985 n. 2139, 17 febbraio 1988 n. 1704.

In diritto privato è interessante la sentenza Cassazione 8 novembre 1984, n. 5640, in “Diritto Fallimentare”, 1985, II, pag. 51. La Suprema corte, seppur in termini non espliciti, pare riconoscere al direttore territoriale di una compagnia di assicurazione, in forma di società azionaria, una rappresentanza di natura organica, allorché lo statuto preveda esplicitamente figure e poteri di tale dipendente come accade per gli istituti previdenziali e per le aziende municipalizzate, in relazione ai quali il rapporto è invece esplicitamente definito “organico” nelle sentenze sopra citate.

[20] L’espropriazione non può mai essere totale, nem­meno per volontà dell’assemblea, poiché l’amministrazione non può essere sottratta all’organo a ciò preposto dalla legge. Si vedano: in dottrina F. Bonelli, “Gli amministra­tori di società per azioni”, Milano, 1985, pagg. 100-101 e le fonti citate in nota n. 1 a sentenza Tribunale Milano 9 ottobre 1975 in “Giurisprudenza Commerciale”, 1976, II, pag. 698. In tema di delega di poteri gestori al direttore generale si veda di G. Ragusa Maggiore, cit., pag. 771.

[21] È immaginabile la reazione provocata da tale af­fermazione al solo pensiero che la delega permanente possa essere data ad un “professionista di assemblee”!