Il 3 luglio 2002 tengo una relazione nell’ambito di un convegno su “Finanza e impresa”.
Affermo, con convinta provocazione, che ai quattro tradizionali fattori della produzione: terra, lavoro, capitale e imprenditore è ormai da aggiungere il “tempo”, poiché nella strategia dell’impresa attuale esso è un fattore sempre più scarso, dati i ritmi, le velocità e le accelerazioni, in cui bisogna assumere decisioni strategiche.
Chiusi i lavori, un auditore mi obietta che, se il tempo è un fattore della produzione per la sua scarsità, deve avere come corollario una remunerazione. Quale, secondo me?
Rispondo, più a istinto che per elaborazione di un pensiero analitico, che la remunerazione del fattore tempo è il “non fallimento” dell’operazione decisa nell’ambito della strategia. Mi pare convinto e lo divento anch’io. Evitare il fallimento di una operazione, perché decisa nel tempo rapido e debito, è, in effetti, una remunerazione, che può persino essere valutata in termini economici. Il suo valore è pari a “quanto sarebbe stato il costo della dispersione di risorse, se l’operazione fosse fallita a causa di intempestività, ma, potrei aggiungere, anche di eccessivo anticipo. La storia economia è piena di fallimenti di intraprese premature. Allora concludo che in economia il “tempo” si accorcia sempre più e questa è l’angustia dell’imprenditore e la causa di certe sue alienazioni e depressioni, ma la riduzione deve essere quella del prevedibile e non del profetico. Il tempo in economia più che un chronos è un kairos, cioè la “giusta dimensione” come dicevano i greci, determinabile in relazione al momento attuale, poiché tutto è relativo.