Si fa presto a dir male di Epicuro! Prima bisognerebbe pensare. Pensiamo alla gioia e al dolore, figure che la dialettica contrappone. Non tutti reagiscono allo stesso modo e non è solo questione di intensità. Non che vi sia chi piange nella gioia e ride nel dolore, perché sarebbe da stupidi, a meno di essere filosofi come Gioppino da Bergamo, che rideva nel peggio, perché pensava al meglio del dopo; cioè non rideva del presente ma per il futuro, che è non deprecabile esistenzialismo. Pensiamo invece all’uomo normale, o meglio a quanto sia diverso il grado di intensità che ogni singolo uomo prova come reazione a gioia e dolore. Vien da pensare che queste due categorie siano, alla fine, poco oggettive e che gioia e dolore siano in buona parte costruzioni dei nostri ingannevoli sensi. Se così è, anche Epicuro aveva le sue buone ragioni: reagire ponendosi in uno stato di sospensione, che è tutt’altro del giudizio di vita godereccia che in genere si attribuisce all’idea di quel filosofo. Anzi e per paradosso, è dramma umano dei più profondi, se per tentare di rimanere distaccati dal dolore si paga il prezzo insostenibile di rimanere indifferenti anche alle poche ore di gioia. C’è da dubitare di tutto, se persino gioia e dolore dipendono dai nostri sensi; c’è da farsi sballare l’equilibrio cerebrale e dubitare di esistere. Fortuna che Cartesio se ne è accorto e ha proclamato, seppur come concetto minimale, che se dubito almeno io sono, al di sopra del dubbio che la gioia sia gioia e il dolore dolore.