Pietro Bonazza

* * *
INERENZA, COMPETENZA E CORRELAZIONE NEL BILANCIO CIVILISTICO E NELLA DETERMINAZIONE DEL REDDITO IMPONIBILE. Casi e riferimenti concreti.
***
(articolo pubblicato sulla “Rivista Italiana di Ragioneria e di Economia Aziendale”, anno 2004, n. 5-6)
* * *

1) Introduzione
Gli operatori e i controllori del bilancio e delle dichiarazioni dei redditi hanno l’obiettivo di determinare correttamente il risultato dell’esercizio per la resa del conto e per l’assolvimento degli obblighi tributari. Queste finalità esigono percorsi in parte comuni e in parte divergenti, ma entrambi richiedono soluzioni di casi concreti. Fare un bilancio e compilare una dichiarazione escludono divagazioni filosofiche o ancor meno metafisiche, perché il risultato finale deve essere un valore monetario, cioè il massimo della concretezza. L’operatore ha a disposizione due strumenti: la casistica, ormai talmente vasta da essere ingestibile persino dal computer, e i concetti generali. Un tempo bastavano questi e chi li aveva ben saldi nella propria cultura economica e giuridica poteva affrontare la soluzione di qualsiasi problema. Il concetto, nella sua espressione più astratta, è più di un riferimento o di un ancoraggio, è la facoltà stessa del pensare correttamente, che è poi un saper collegare i singoli concetti tra di loro, l’ordinarli secondo principi categoriali, cioè classificarli e porli in rapporti sequenziali e gerarchici. Questo mondo, in cui il concetto era il ferro del mestiere dell’operatore, il cacciavite che consentiva di smontare e rimontare i sistemi, ha perso gran parte della sua importanza nel diritto tributario; colpa anche dei politici che, esagerando le possibilità oggettive del Fisco, hanno moltiplicato tentativi riformistici nell’impossibile obiettivo di ridurre la pressione e aumentare il gettito, al punto di mettere in difficoltà la stessa Amministrazione finanziaria, cioè se stesso, e cadere nell’autolesionismo. Resta il secondo strumento: la casistica, che ha fatto la fortuna di quelli che al ragionamento preferiscono il prodotto già confezionato e, poiché la memoria umana ha i suoi limiti, si avvalgono di quella informatica, che, però, non è senza limiti. Si verifica, nel diritto tributario, il fenomeno dei beni e dei servizi: ormai ne esiste un’infinità, ma, nonostante il computer, diventa un problema sapere chi li produce e chi e dove si possono trovare in vendita. In un certo senso siamo tornati al punto di partenza, ma con l’aggravante di aver perso l’allenamento al ragionare.
Bisogna tornare alle origini, all’abitudine di affrontare il caso concreto e la sua spiegazione partendo dai concetti. Per questi motivi, il capitolo 5 è preceduto da un’analisi critica dei presupposti logici, che stanno all’origine.
2) Concetti generali di “inerenza”, “competenza” e “correlazione” nell’economia d’azienda.
La competenza economica è un concetto che tutti citano, reciprocamente richiamandosi, ma senza darne una vera definizione, sicché, alla fine, diventa una tautologia. Eppure si tratta di un concetto basilare per la corretta formazione del bilancio civilistico e per la determinazione del reddito imponibile.
La presenza dell’aggettivo “economica” rinvia all’analisi del linguaggio, secondo cui l’aggettivo è anche una necessità di distinzione, cioè: se diciamo “competenza economica” significa che esistono altre competenze diverse dall’economica; ma dire “competenza” sic et simpliciter non è sufficiente, perché non racchiude un concetto assoluto. Infatti, viene dal latino com e petere, che ha più significati e si può avere una “competenza giuridica”, una “competenza professionale”, ecc. Richiamo la pluralità dei significati per porre la domanda: se sia corretto parlare anche di “competenza temporale”, considerando che i due concetti vengono entrambi usati e spesso si parla anche solo di “competenza” senza aggettivazioni, lasciando in dubbio se ci si riferisce all’elemento tempo o alla relazione economica tra fenomeni.
Sappiamo che il reddito è l’elemento dinamico che fa variare la ricchezza nel tempo. Il reddito è il motore che imprime al capitale variazioni nel tempo. Ma lo scostamento tra l’inizio e la fine, misurato dal reddito totale, sarebbe valore di scarsa utilità pratica nelle imprese destinate a durare nel lungo periodo. Da qui la necessità di frazionare il lungo segmento in tratti più brevi, convenzionalmente a durata annuale, e alla fine di ognuno conoscere come sono andate e come stanno andando le cose, anche se questa conoscenza parziale sconta il rischio della imprecisione. La competenza è la conseguenza di questo frazionamento, che impone tagli virtuali a processi economici in corso. Si potrebbe applicare al processo economico la parafrasi del coleottero che vola, mentre non potrebbe secondo le leggi della fisica, ma, non conoscendole, vola lo stesso. Così il processo economico che, non sapendo che lo stanno affettando, va avanti lo stesso. Sappiamo quanto perderebbe un’impresa se il contabile bilancista imponesse il fermo della produzione perché deve fare il “conto annuale”. Il processo produttivo, se potesse parlare, gli risponderebbe “lasciami lavorare e ricorri alla competenza e al calendario” e avrebbe ragione. Allora è chiaro che elemento tempo e relazione economica sono due concetti diversi, non derivati l’uno dall’altro.
Poste queste necessarie precisazioni e constatato che il legislatore tributario ha fatto rinvio, con riserva, alla ragioneria, dobbiamo ricercare in questa disciplina la matrice delle definizioni, ricordando la critica iniziale, che rileva come tutti ne parlino senza esprimersi, compreso l’art. 2423-bis del codice civile.
Di “competenza economica” trattano i manuali di ragioneria, di finanza e di economia aziendale, ma non si esprimono in definizioni, eppure il glossario è importante in ogni disciplina, se non altro per delimitare gli oggetti e non cadere nella indeterminatezza, tanto più insopportabile nelle materie fondate sul computo, che esigono precisione per definizione. Si dovrebbe, allora, far conto sui “principi contabili”, che hanno finalità più concrete e pratiche. Il “Principio n. 11 dei Consigli nazionali dei dottori commercialisti e dei ragionieri”, con titolo “Bilancio d’esercizio: finalità e postulati”, riporta un paragrafo con titolo generico “Competenza”, perché intende l’esistenza di una “competenza temporale” e di una distinta “competenza economica”.
a) La definizione della prima è la seguente: « L’effetto delle operazioni e degli eventi deve essere rilevato contabilmente ed attribuito all’esercizio al quale tali operazioni ed eventi si riferiscono e non a quello in cui si concretizzano i relativi movimenti di numerario (incassi e pagamenti). » Non si tratta di una definizione, poiché è una parafrasi del dualismo tra “cassa” e “competenza”, che si risolve anche in un ragionamento circolare (1). Sarebbe stato più chiaro dire, per esclusione, che la “competenza temporale” non è quella in cui si concretizzano incassi e pagamenti; ma sarebbe stato scorretto, perché se questi si realizzano nello stesso esercizio in cui sorge il fatto amministrativo, la “competenza temporale” è proprio quella dei movimenti di numerario. Si deve allora concludere che il termine “competenza” non si addice alla relazione in base al tempo e nemmeno a quella del movimento numerario. Bisognerebbe, invece, affermare che, posta la necessità di suddividere la vita economica dell’impresa in frazioni del suo totale, il fenomeno economico rappresentato dal fatto amministrativo è attribuito alla frazione temporale in cui si manifesta, rinunciando così a parlare di “competenza temporale”, poiché non vi è alcuna competenza da ricercare: ci pensa il calendario.
Allora, la competenza in senso ragioneristico è solo quella “economica” e in primis si dovrebbe stabilire se la “manifestazione” del fenomeno è quella della “causa” o, come afferma il Principio 11, quella dell’ “effetto”. Questo è certo un ancoraggio sicuro, perché l’effetto è, in concreto, la manifestazione stessa del fenomeno. Il pr
ocesso di definizione, cogliendo l’effetto, è però un modo molto superficiale di analisi. Se si definisce il fulmine con riferimento alla distruzione dell’albero su cui è caduto, c’è il rischio di non capire il fulmine che passa sull’albero senza nemmeno strinarlo e, per rimanere nell’economia d’azienda: se si analizza un costo di pubblicità rimasto senza effetto, si rischia di escluderne l’esistenza, nonostante abbia avuto persino manifestazione di spesa. Ben lo sapevano i commissari che hanno adattato il nostro codice alla IV Direttiva comunitaria, quando, scrivendo il D.Lgs. 127/1991, hanno scelto per i conti economici la classificazione per “natura” e non per “destinazione”, cioè una classificazione più affine alla causa che all’effetto. Si pensi al “costo”, che non è un fenomeno negativo, ma il presupposto per conseguire ricavi, al punto che si può affermare, in economia d’azienda, che non vi sono ricavi senza costi, anche quando i ricavi precedono i costi, come accade nella vendita di “cosa altrui” (art. 1478 cod. civ.) cioè di un bene non ancora acquistato (“acquisto sul venduto”). Potremmo concludere che la competenza economica è basata sulla causa e non sull’effetto. Ma, allora, perché i compilatori del Principio n. 11, che sono indubbiamente degli esperti, hanno scelto di definirla partendo dal secondo? Si può ipotizzare che siano stati condizionati istintivamente dal fenomeno della ripartizione dei costi nel tempo, come avviene, per esempio, per i beni “a fecondità ripetuta”, quindi da ammortizzare. Devono aver pensato: il costo pluriennale cede la propria utilità in più esercizi, cioè manifesta i suoi effetti in più segmenti temporali; pertanto, se si definisce la competenza in relazione agli effetti, si può sostenere l’attribuibilità all’esercizio per quote (effetti), mentre, se si parte dalla causa, si deve poi assegnare l’intero costo all’esercizio. Ma la considerazione è incerta, perché un bene pluriennale, seppure inutilizzato in un segmento temporale, quindi senza effetti in esso, deve essere ammortizzato, perché la perdita di valore è legata al decorso del tempo anche a prescindere dall’impiego. L’obsolescenza non è assorbita dall’usura materiale. Allora, non è dall’effetto che si può ricavare una definizione sicura della competenza. Ma anche la scelta della causa non è scevra di inconvenienti. Dire che un fenomeno è attinente, cioè “competente”, perché la sua causa è orientata allo scopo, significa cadere nello psicologismo, trattandosi di fenomeni non naturali ma legati alla volontà umana, oppure sovrapporgli un collegamento, che fa cadere nella correlazione. Se diciamo che la causa per cui sosteniamo un costo è il conseguimento di ricavi, significa correlarlo a un fenomeno simmetrico.
b) La definizione della “competenza economica” nel citato paragrafo del “Principio n. 11” parrebbe espressa al comma successivo, che recita: « La determinazione dei risultati d’esercizio implica un procedimento di identificazione, di misurazione e di correlazione di ricavi e costi relativi ad un esercizio.» Ma anche questa affermazione, a parte l’inopportuna incorporazione della correlazione, non è una definizione, ma esprime solo una metodologia.
Non più convincente sulla idoneità a costituire una vera definizione è il “Criterio della competenza” dello IAS (Principi Contabili Internazionali), in cui si legge questa affermazione, un specie di miscela tra “competenza e correlazione”:
« secondo il criterio della competenza, le operazioni e i fatti sono rilevati quando essi si verificano (e non quando si verificano incassi e pagamenti) e sono rilevati in contabilità e nel bilancio dell’esercizio a cui si riferiscono. I costi sono imputati al conto economico sulla base della diretta relazione tra i costi sostenuti e la realizzazione degli specifici ricavi realizzati (correlazione). Tuttavia, l’applicazione del concetto della correlazione non consente la rilevazione di voci nello stato patrimoniale che non soddisfino la definizione di attività o passività.»
c) La definizione di “correlazione” è così espressa nei principi dello IAS:
« I costi sono imputati nel conto economico sulla base di una associazione di-retta con specifiche voci di ricavo. Questo procedimento, conosciuto come correlazione dei costi con i ricavi, implica la simultanea e combinata impu-tazione di ricavi e costi che risultano congiuntamente dalle medesime operazioni; ad esempio, le diverse voci di costo, che aggregate formano il co-sto del venduto, sono imputate nello stesso periodo nel quale lo sono i rica-vi della vendita. Tuttavia l’applicazione del criterio della correlazione, così come esposto in questo studio, non consente l’iscrizione in bilancio di po-ste che non soddisfino i requisiti per essere considerate attività o passività.»
Concludiamo, allora, che la definizione di “competenza economica” non sta né nella causa, né nell’effetto, né, ancor meno, nelle metodologie. Se la definissimo con Niccolò Tommaseo: l’ “accordarsi una cosa con altra”, non usciremmo dalla “correlazione” e, comunque, potremmo cadere nell’ “inerenza”. Dobbiamo, invece, proporre definizioni distinte per: “competenza”, “inerenza”, “correlazione” e “relazione temporale”, trattandosi di concetti diversi, seppur ammettendo la parzialità e l’imprecisione di ogni definizione, poiché definire è anche un limitare, ma anche non escludendo che, alla fine, si debba constatare il frequente uso improprio dei termini, nel qual caso una definizione per induzione potrebbe risultare errata. Alle fattispecie si addice il criterio deduttivo, ma preponendo una definizione di impresa, entro cui condurre le definizioni degli altri oggetti. Ovvio che, cambiando la definizione di impresa, cambierebbero anche le altre collegate.
L’algebra moderna ci ha fornito i concetti di “campo” e di “insieme” e se l’impresa è ritenuta un campo, possiamo definirla come un complesso di operazioni (atti e fatti economici) di amministrazione (2), con cui l’imprenditore tenta (3) di realizzare l’obiettivo di condurre l’impresa fino alla scadenza della sua durata secondo i sub-obiettivi che si è proposto: lucro personale, creazione di posti di lavoro, fondazione e affermazione di un nome da consegnare alla storia economica, ecc. Questo obiettivo può essere realizzato con processi produttivi di beni e servizi. In questo insieme si sviluppa un processo di nidificazione non certo facile da districare. Però, possiamo pensare che le singole operazioni (fatti o atti), essenzialmente costi o ricavi, se ci si riferisce alla natura economica, si classifichino per:
– “inerenza”, quando la loro relazione è all’impresa in generale;
– “competenza economica”, quando la loro relazione è ai processi produttivi;
– “correlazione”, quando la relazione è tra costi o classi di costi e ricavi o classi di ricavi, costi e ricavi che, a spiegarci per metafora, sono le due facce di quella stessa moneta che si chiama appunto processo produttivo.
Date queste definizioni, non vi è più motivo per una “competenza temporale”. Ecco perché ho sostenuto che la temporalità è una segmentazione, una cesura, un’operazione meccanica, che impone sì scelte di ragioneria, ma senza costruire o esigere concetti autonomi. Non c’è nulla da definire. Un anno, per un’impresa che scade tra trent’anni, è un trentesimo e per un impianto che promette dieci anni di utilizzazione, è un decimo. Non c’è bisogno di sprecare concetti in tutto questo.
Infine, è necessario stabilire se esistano autonomia, derivazione o rinvio della norma tributaria a quella civilistica.
Di autonomia non si tratterebbe, se si considera che il Testo unico n. 917/1986 ha pur sempre le sue radici nella legge delega n. 825/1971, che all’art. 2, n. 16, ha stabilito l’adeguamento del reddito imponibile delle imprese commerciali «…a quello calcolato secondo i principi di competenza econ
omica.» Poiché negli art. 74 del DPR 597/1973 prima e art. 75 TU 917/1986 attuale, o in altra norma sul reddito, non si rinviene una definizione tributaria di “competenza economica”, si deve ritenere che il legislatore tributario abbia inteso rinviare alla definizione che ne dà la ragioneria. Ma, se non esiste autonomia, non c’è nemmeno un rinvio puro e semplice, poiché una definizione tributaria, non appena sembra recepire un concetto esterno, in realtà lo trasforma, per soddisfare le sue proprie esigenze di specialità, più o meno pretestuose; sicché, pare più realistico parlare di “derivazione”. L’analisi successiva tratterà il problema, ma già in via preliminare si può constatare la necessità di risalire all’origine del concetto, almeno per riscontrarne gli scostamenti.
3) Concetti di “inerenza”, “competenza” e “correlazione costi-ricavi” (4) nel diritto tributario
3.1) Inerenza
Secondo il Ministero delle finanze il principio di “inerenza” sarebbe posto nell’attuale comma n. 5 dell’art. 75 Tuir 917/1986, che deriva dall’art. 74 del DPR 597/1973 e recita: « Le spese e gli altri componenti negativi diversi dagli interessi passivi, tranne gli oneri fiscali, contributivi e di utilità sociale, sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito…». Infatti, in Circolare 7 luglio 1983, n. 30/9/944 si legge: « Quest’ultimo principio [inerenza] è stato trasfuso, per migliore sistematicità, dalla legge 4 novembre 1981, n. 626, nel secondo comma dell’art. 74 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 597… Contrariamente alla legislazione pre-riforma, secondo la quale la spesa, per essere ammessa in detrazione, doveva presentarsi nella sua individualità come condizione non generica, ma specifica, perché il reddito si producesse, attualmente il concetto d’inerenza non è più legato ai ricavi dell’impresa, ma all’attività della stessa, con la conseguenza che si rendono detraibili i costi relativi all’attività dell’impresa e riferentesi ad attività ed operazioni che concorrono a formare il reddito d’impresa.». Il principio è stato riaffermato dal Ministero nella Risoluzione 28 ottobre 1998, n. 158/E, e sembra ammettere che, prima di generalizzare il rapporto all’attività d’impresa, si faceva confusione tra “inerenza” e “correlazione”, anzi, i due concetti finivano per sovrapporsi.
Osserviamo che l’inerenza è una precondizione senz’altro condivisibile, perché logica e perché il Ministero non è caduto nell’errore di legarsi all’oggetto sociale o più genericamente all’oggetto dichiarato e formalizzato dell’attività d’impresa. Infatti, non deve interessare se nell’atto costitutivo di una società o nell’oggetto dichiarato dall’impresa individuale al “Registro delle imprese” è indicato un certo ambito. Per l’Amministrazione finanziaria un costo deve essere deducibile anche se riguarda un’attività diversa da quella dell’ambito formale, purché il complesso delle operazioni sia fatto rientrare nella potenziale produzione del reddito, che è conseguenza eziologica dell’attività d’impresa. Il concetto di inerenza così identificato rende indetraibili, per disposizione dell’art. 66, minusvalenze patrimoniali e perdite di beni non relativi all’impresa e, invece, tassabili a sensi dell’art. 54 Tuir 917/1986: « le plusvalenze dei beni relativi all’impresa… d) se i beni vengono destinati al consumo personale o familiare dell’imprenditore, assegnati ai soci o destinati a finalità estranee all’esercizio dell’impresa », che, a sua volta, spiega la deroga prevista dall’art. 65, comma 2, per le erogazioni liberali, deducibili solo alle condizioni ivi previste e dopo la determinazione di un esistente “reddito d’impresa”.
Nel tentativo di definizione di “inerenza” si è detto prima che essa definisce una “relazione all’impresa in generale” e qui si afferma che l’inerenza è una “precondizione” per stabilire l’esistenza o no di un collegamento tra il sostenimento di un costo e la sua deducibilità fiscale in una misura, che si dovrà definire in un passaggio di secondo livello. Come a dire che potrebbe risultare ingannevole dedurre il concetto di “costo deducibile” dall’art. 95 Tuir 917/1986, nel senso che, se è vero che questa norma afferma che: « Il reddito complessivo delle società e degli enti commerciali…da qualsiasi fonte provenga, è considerato reddito di impresa…», non è vero che, ragionando per analogia, “ogni costo per qualsiasi motivo sia sostenuto debba essere considerato costo dell’impresa”. Si osservi che l’art. 95 parla non di “ricavi”, ma di “reddito”, cioè di risultato differenziale tra ricavi e costi, ma non per questo tutti i costi sostenuti per la produzione del reddito sono stati riconosciuti deducibili, dovendo scontare le condizioni previste dal comma 4 dell’art. 75. Il concetto di “inerenza” è proprio racchiuso in questa mancanza di una specularità assoluta e acritica, o mancanza di simmetria o di rovesciamento dialettico del concetto. Per spiegarci con due casi limite, possiamo affermare (lo ha fatto l’Amministrazione finanziaria in più di un’occasione) che il conseguimento di un reddito con attività illecita (contrabbando) non esime dalla imponibilità ex art. 95, mentre il costo sostenuto dalla società per pagare il conto della pellicceria della moglie dell’amministratore delegato, non è deducibile per mancanza del rapporto di “inerenza”.
Ma non si dimentichi che l’ “inerenza” deve anche essere “buona”. Facciamo l’esempio, volutamente provocatorio, di una società che svolga il contrabbando di sigarette con organizzazione imprenditoriale. I proventi sarebbero tassabili a sensi dell’art. 95, ma anche dell’art. 6, comma 1, lettera f), come modificato dall’art. 14 della Legge 537/1993 sulla tassazione delle attività illecite. Sarebbero tassabili i proventi (quindi un concetto di reddito molto “lordo”!), ma non sarebbero deducibili i costi sostenuti per produrli. Questo è comunque l’avviso della Commissione Provinciale di Milano che in sentenza 11.11.1996, n. 111/34/96 ha dichiarato che i costi sostenuti per corrispondere somme ai dipendenti di propri clienti al fine di incentivarli a proporre i loro prodotti rispetto a quelli della concorrenza non sono deducibili perché derivanti da attività illecita. Cioè: i proventi sono tassabili, mentre i costi sono indeducibili. Si dirà che non c’è simmetria, che un simile sistema manca di specularità. Io ritengo che il vizio sia all’origine e cioè all’illecito deve bastare il codice penale, se entra anche quello tributario, o c’è duplicazione o c’è immoralità da parte dello Stato.
Ma, non è da sottovalutare la disinvoltura, tutt’altro che rara, con cui certi costi vengono passati in conto economico, con violazione della norma civilistica, e non ripresi con variazione in aumento nella dichiarazione dei redditi, con ulteriore violazione della norma tributaria, disinvoltura che può costare anche cara, come si evince dal “Protocollo d’intesa” 25 ottobre 2000 di Guardia di Finanza-Direzione generale delle entrate del Trentino Alto Adige con la Procura della repubblica di Trento. In quel “Protocollo” si afferma che l’esposizione di “costi non inerenti”, integra un caso di esposizione di “costi fittizi” e, quindi, costituendo reato, fa scattare le sanzioni di carattere penale. La motivazione di tale interpretazione sarebbe nella evidente consapevolezza di inquinare il reddito imponibile con costi privi del requisito di inerenza.
Una corretta interpretazione del concetto di “inerenza” è stata data anche dalla Sezione tributaria della Corte di Cassazione, che in sentenza 19 maggio 2000, n. 6502, ha riconosciuto che: « Considerato che la pubblicità non svolge più un ruolo puramente informativo, volto, cioè, a far conoscere l’esistenza di un prodotto
sul mercato, potendo essere utilizzata anche per altri fini – quale ad esempio quello di sensibilizzare preventivamente l’interesse del consumatore verso beni o servizi non ancora concretamente offerti ovvero per il raggiungimento di ulteriori intenti di politica aziendale -, possono qualificarsi come inerenti all’esercizio dell’impresa anche spese che siano state sostenute prima che l’offerta del bene o del servizio pubblicizzato si sia concretamente realizzata ovvero che siano rivolte al rafforzamento e al consolidamento dell’attività imprenditoriale.»
La stessa Corte di cassazione, con sentenza 1 agosto 2000, n. 10062, ha affermato che, per esistenza della condizione di inerenza, sono deducibili i costi “di regia” sostenuti da una branch nazionale, anche se i ricavi riferiti a quei costi sono stati prodotti da altri soggetti appartenenti allo stesso gruppo societario multinazionale.
Affidandoci a queste condivisibili affermazioni potremmo sostenere, per esempio, la detraibilità dei costi per arredi della sala di presidenza di una società, ancorché sostenuti per quadri e tappeti persiani.
Se si analizzano i casi concreti risolti dalla giurisprudenza si osservano alcune pericolose incertezze sul fronte dei costi, per mancanza di simmetria con i ricavi, ciò che è dovuto alla flessibilità dell’attività dell’impresa. Infatti, sarebbe molto semplice affermare che i ricavi sono quelli che derivano da attività rientranti nell’oggetto sociale, da cui deriva il reddito d’impresa e poi affermare che i costi sono inerenti se hanno un collegamento all’attività così intesa. Purtroppo non è possibile restringere il tutto all’asse: oggetto sociale  attività dell’impresa che lo realizza  ricavi e costi, per due motivi:
– l’impresa non è vincolata, in concreto, all’oggetto formalizzato. In altri termini: se si presenta un buon affare, l’imprenditore, compresi nel termine gli amministratori dell’impresa societaria, lo fa, poi si chiede se rientra o no nell’oggetto, e solo dopo averne compiuto una serie attua una modificazione dell’oggetto. Ritengo che questa affermazione sarà valida, in concreto, anche dopo l’1.1.2004, quando sarà entrato in vigore il D.Lgs. 5/2003 e, quindi, il nuovo art. 2328 cod. civ., che al n. 3, ha sostituito nell’elenco degli elementi dell’atto costitutivo l’attuale locuzione “oggetto sociale” con la più precisa e più restrittiva “l’attività che costituisce l’oggetto sociale”; – il Fisco tassa il reddito a prescindere dalla coerenza con l’oggetto e a tal fine provvedono gli artt. 51 e 95 Tuir 917/1986.
Fatte queste due constatazioni, ci si deve chiedere come sia possibile – e ciò giustifica l’incertezza della giurisprudenza – riconoscere la deducibilità di costi per motivi di “inerenza” all’attività dell’impresa, quando nemmeno in linea di fatto sono stati conseguiti ricavi extra oggetto. Si faccia l’esempio di una impresa di costruzioni specializzata in appalti di opere pubbliche di fatto e per delimitazione dell’oggetto sociale, che sostiene costi di pubblicità in occasione di manifestazioni sportive. Si potrebbe sostenere, con una qualche ragione, che tali spese possono avere il requisito dell’inerenza se, in concreto, la società abbia già svolto anche attività di appalti per opere private, valicando i limiti dell’oggetto sociale. Ma se questo non fosse ancora accaduto, come potrebbe sperare nel riconoscimento della deducibilità solo affermando che potenzialmente la deroga potrà avvenire in futuro? Questo sarebbe un caso in cui la mancanza di un ricavo antecedente al tipo di costi esemplificato rende non credibile l’inerenza di quei costi, così giustificando le incertezze che si possono rilevare nella giurisprudenza e ancor più nell’Amministrazione finanziaria. La citata sentenza Cass. 19.5.2000, n. 6502 va interpretata nel senso che, almeno a breve, i ricavi si siano poi verificati o quanto meno che l’offerta del bene si sia concretizzata o che il rafforzamento dell’attività imprenditoriale sia diretto all’ambito dell’attività attuale o concretamente programmata.
Meritano di essere citati due casi affrontati dalla giurisprudenza: la cena sociale e il riscatto di un dirigente sequestrato.
Sul primo: la Commissione centrale, con decisione 6.11.1992 n. 877, ha dichiarato l’indeducibilità della spesa per la cena sociale offerta da una società ai soci in occasione dell’approvazione del bilancio in quanto non inerente e non diretta al fine del conseguimento dell’oggetto sociale. Sul secondo: la Corte di cassazione, in sentenza 7.4.1995, n. 8818, ha affermato l’indeducibilità della somma versata da una società per il rilascio di un proprio dirigente sequestrato, perché la spesa non sarebbe inerente. La Cassazione si è anche concessa una divagazione quanto meno inopportuna, affermando che la prestazione di un dirigente è di natura professionale fungibile e semmai la spesa deducibile sarebbe rapportata al costo per il rimpiazzo, ma quand’anche non lo fosse il danno sarebbe limitato alla riduzione dell’utile d’impresa conseguente alla mancata prestazione di attività del sequestrato
Non si giustificano invece incertezze quando si riscontrano confusioni concettuali. Per esempio la Commissione Trib. di II Grado di Matera con decisione 1.10.1994, n. 1651, ha negato la deducibilità di costi per omaggi natalizi perché di importo sproporzionato e ciò per violazione del principio di inerenza. Si può convenire con la Commissione lucana perché è stato violato un principio di ragionevolezza non quello di inerenza. Così non sembrano corrette talune affermazioni che hanno riconosciuto la deducibilità di costi di sponsorizzazione in riferimento all’inerenza, invece di trattarle con gli stessi strumenti concettuali delle spese pubblicitarie. Si deve però riconoscere che i confini non sono facili da tracciare.
Collegato è il problema della prova dell’inerenza, che la Corte di cassazione, con sentenza 20 novembre 2001, n. 14570 ha posto a carico del contribuente.
Degno di particolare attenzione, per i contributi recati al chiarimento mediante distinzione dei concetti di inerenza e correlazione, è il parere n. 1/2001 del “Comitato consultivo per l’applicazione delle norme antielusive”. Il parere, emesso su relazione del prof. Franco Batistoni Ferrara, cadenzato su 17 “premesse” e 13 “ritenuto che”, al riparo di ogni possibile contestazione di difetto di motivazione, perviene alla conclusione che la spese di ospitalità alberghiera dei clienti sostenuta da una società che vende i suoi prodotti in fiera anche ai clienti ospitati e visitatori, non è di pubblicità e non soggiace alla problematica dei distinguo sulla sua natura poiché: «… la spesa così sostenuta non si può considerare né spesa di pubblicità e propaganda, né spesa di rappresentanza e, di conseguenza, non rientra nelle previsioni dettate dall’art. 74 del Testo unico delle imposte sui redditi.» Si può constatare che per il Comitato ha prevalso correttamente, nella fattispecie e rispetto al concetto generico di “inerenza”, il rapporto costi-ricavi in un collegamento di “correlazione”, secondo la definizione che ne sarà data più avanti nel § 3.3.
3.2 – Competenza (5)
Il Tuir 917/1986 rinvia alla competenza nella prima parte del comma 1 dell’art. 75, che stabilisce: « 1. I ricavi, le spese e gli altri componenti positivi e negativi, per i quali le precedenti norme del presente Capo non dispongono diversamente, concorrono a formare il reddito nell’esercizio di competenza…», ma, come conferma che ogni definizione extratributaria, seppur richiamata, deve fare i conti con le esigenze erariali (nella fattispecie: la certezza del gettito), aggiunge: « tuttavia i ricavi, le spese e gli altri componenti di cui nell’esercizio di competenza non sia ancora certa l’esistenza o determinabile in modo obiettivo l’ammontare concorrono a formarlo nell’esercizio in cui si verificano tali condizioni », condizione ben diversa da quella dell’art. 2423 bis del co
dice civile, che si limita a prescrivere che: « si deve tener conto dei proventi e degli oneri di competenza dell’esercizio, indipendentemente dalla data dell’incasso o del pagamento », di cui, come si è visto, il Principio n. 11 è mera parafrasi. Si nota, innanzi tutto, che l’art. 75 si riferisce alla mera temporalità. Infatti, prosegue:
« 2. Ai fini della determinazione dell’esercizio di competenza:
a) i corrispettivi delle cessioni si considerano conseguiti, e le spese di acquisizione dei beni si considerano sostenute, alla data della consegna o spedizione per i beni mobili e della stipulazione dell’atto per gli immobili e per le aziende, ovvero, se diversa e successiva, alla data in cui si verifica l’effetto traslativo o costitutivo della proprietà o di altro diritto reale. Non si tiene conto delle clausole di riserva della proprietà. La locazione con clausola di trasferimento della proprietà vincolante per ambedue le parti è assimilata alla vendita con riserva di proprietà;
b) i corrispettivi delle prestazioni di servizi si considerano conseguiti, e le spese di acquisizione dei servizi si considerano sostenute, alla data in cui le prestazioni sono ultimate, ovvero, per quelle dipendenti da contratti di locazione, mutuo, assicurazione e altri contratti da cui derivano corrispettivi periodici, alla data di maturazione dei corrispettivi…»
Non esiste alcuna attenzione per il “principio di prudenza”, per cui un costo può essere dedotto solo se nel segmento temporale di cui si tratta assume le condizioni congiunte di “certezza dell’esistenza” e “oggettiva determinabilità”, condizioni che, in sé, possono essere anche di portata generale e soddisfare l’esigenza di precisione del bilancio civilistico. Sennonché, in questo, il requisito della certezza deve coniugarsi a quello della prudenza e, allora, ove non può configurarsi una rappresentazione di un fenomeno incerto interviene l’obbligo di costituire un “fondo”, per rispetto del n. 4 dell’art. 2423bis cod. civ., mentre l’art. 73, n. 4, Tuir 917/1986, pone una norma di assoluta chiusura.
Si osserva che sul primo comma dell’art. 75 Tuir 917/1986 e sul suo omologo art. 74 del D.P.R. 597/1973 si fa da anni gran dispendio di inchiostro da parte di dottrina, giurisprudenza e della stessa Amministrazione finanziaria, ma non basta l’origine un po’ metafisica del concetto a giustificare tanta profusione, a cui si aggiunge ora anche l’art. 7 del Decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, sul nuovo regime penale tributario, che dispone che le: «…rilevazioni nelle scritture contabili e nel bilancio eseguite in violazione dei criteri di determinazione dell’esercizio di competenza ma sulla base di metodi costanti di impostazione contabile…» non generano situazioni penalmente rilevanti, poiché mancherebbe il “dolo di evasione”. Così, per esempio, se una società esercente il leasing finanziario rilevasse la perdita sui crediti a “prima insolvenza” anziché a “sofferenza definitiva”, sbagliando la competenza, ma mantenendo fermo nel tempo il regolamento contabile non compirebbe il reato di evasione, il che può essere un “grande conforto”, purtroppo solo penale.
Il principio di competenza è talvolta frainteso con quello di correlazione, come si noterà nel successivo capitolo.
Ma la difficoltà di inquadrare con coerenza logica il problema della competenza si rivela nella recente sentenza 27 febbraio 2002, n. 2892 – a mio avviso contraddittoria, sconvolgente e pericolosa – con cui la Corte di cassazione ha affermato il principio che nel bilancio possono essere considerati ai fini della determinazione del reddito imponibile tutti gli aggiornamenti consequenziali fino al termine stabilito per la presentazione della dichiarazione dei redditi. Se così fosse, l’art. 75, comma 1, TUIR 917/1986 risulterebbe completamente svuotato.
Questa sentenza della Corte di cassazione può essere collegata, però con cautela, alla successiva 4 settembre 2002, n. 12831, che, in tema di contributi AIMA, ha collegato la competenza al principio di certezza, riconoscendo validità alla data del decreto di liquidazione dell’organo erogante ai fini di individuare l’esercizio a cui attribuire il contributo stesso. La certezza è però quella che si può ricavare dall’art. 75 citato senza le dilazioni insostenibili affermate nella precedente sentenza n. 2892.
3.3 – correlazione costi-ricavi
La correlazione sembra un concetto di più facile definizione, ma è necessario precisare se il riferimento è generico o specifico. Nel primo caso ricadremmo nell’inerenza. La correlazione è, invece, una connessione tra costi o classi di costi, nella sua tipicità economica, ma anche fisica (in alcuni casi si potrebbe persino dire “merceologica”), con ricavi o classi di ricavi altrettanto specifici. Qui ci deve essere un rapporto funzionale tra la causa (costo) e l’effetto (ricavo), senza il quale il costo non necessariamente diventerebbe indeducibile, ma potrebbe rientrare nel livello superiore della deducibilità per “inerenza”, in quanto esista. Il principio di correlazione riassume in sé il riconoscimento che non può esistere un ricavo se non generato da un costo, per cui non si può tassare come reddito un mero ricavo senza la deduzione del costo che è posto come causa attuale o futura, ma attualizzabile, atta a generarlo, però senza mai dimenticare le condizioni di deducibilità poste dal comma 4 dell’art. 75 Tuir 917/1986.
La correlazione, poiché è in sostanza “congiunzione”, genera, a sua volta, un effetto di trascinamento o di attrazione, che, però, per il Ministero delle finanze, non è fenomeno biunivoco, cioè: uno solo fa da calamita dal punto di vista temporale. Questa constatazione è essenziale. Se ci si chiede se nel tempo indeterminato fanno da calamita i costi oppure i ricavi, si pone una domanda priva di significato, ma se ci si riferisce a un particolare segmento temporale, in cui possono realizzarsi non entrambi, ma solo l’uno oppure l’altro, diventa determinante stabilire quale dei due eserciti la vis attractiva. Il Ministero delle finanze, nella Risoluzione 22 ottobre 1981, n. 9/2940 (6), tuttora riconosciuta come pienamente valida, ha posto il principio che sono i ricavi che attraggono i costi e non viceversa, per cui se nell’esercizio “x” si manifesta il ricavo dell’oggetto “y”, mentre i costi a esso correlati si manifestano nell’esercizio “x+1”, questi si considereranno anticipati all’esercizio “x”, nel quale i ricavi devono essere dichiarati. Non c’è niente di rivoluzionario in questa affermazione ministeriale, anche se il ritardo con cui è stato riconosciuto il principio ha fatto esultare i commentatori degli anni Ottanta. Infatti, si tratta di semplice e doverosa simmetria con la definizione di “rimanenza” data dalla ragioneria e accolta anche dal diritto tributario (art. 59 del Tuir 917/1986), secondo cui le rimanenze sono costi rinviati cioè sospesi, perché in attesa della manifestazione dei ricavi. La sospensione, diversamente dalla attualizzazione, implica una mancanza di effetto economico sull’esercizio, cioè una neutralizzazione e solo quando si manifesterà il ricavo si determinerà il differenziale, che è l’effetto economico reddituale. Invece, se è il ricavo a manifestarsi per primo, data la sua vis attractiva, scatta anche la temporalizzazione dei costi, rispettando condizioni di certezza e oggettiva determinabilità, per rispetto del principio generale affermato dal primo comma dell’art. 75 Tuir 917/1986, il cui rigore può però determinare una situazione zoppa e portare alla tassazione del ricavo come reddito, se il costo non può essere meramente presunto. Il rischio è tutt’altro che astratto, perché la “certezza” non è intesa dal Ministero in senso assoluto e la “determinabilità oggettiva” è corretta dal principio di “possibilità”. La fame di gettito fa dire all’Amministrazione finanziaria affermazioni non sempre coerenti e lascia al
contribuente incertezze, a cui ha dato pesante contributo l’evoluzione giurisprudenziale pro fisco della Corte di cassazione. Si pensi, per esempio, al concetto di “presunzione”, che deve avere i requisiti dell’art. 2727 cod. civ. per sorreggere un accertamento. “Gravità, precisione e concordanza” devono essere intesi, per la Corte, nel senso di “probabilità” e di “possibilità”. Allora non è più vero quel che è certo, ma ciò che è possibile o probabile. Non si può nemmeno affermare che questa larghezza di vedute valga solo per l’accertamento, perché questo, in molti casi, riguarda proprio l’applicazione dell’art. 75, comma 1, Tuir 917/1986.
Si comprende così il senso dell’affermazione che si legge nel testo Le imposte sui redditi nel T.U., scritto dagli allora dirigenti del Ministero delle Finanze: Leo, Monacchi, Schiavo, Roxas a commento dell’art. 75: « L’orientamento ministeriale [cioè lo stesso ministero, visto che ne erano a capo] sopra enunciato comprova come al requisito della oggettiva determinabilità vada riconosciuto valore relativo e non assoluto, nel senso che la determinazione degli elementi reddituali da prendere in considerazione ai fini della determinazione del reddito dell’impresa non si basa su criteri matematici, ma su elementi di valutazione in possesso dell’impresa all’atto della formazione del bilancio riguardanti l’esercizio in chiusura e sulla proiezione degli stessi sugli esercizi successivi, procedimento questo che può ingenerare qualche incertezza sulla corretta individuazione dei criteri oggettivi da seguire ai fini di cui trattasi.»
È giusto sottolineare che l’affermazione riportata si riferisce alla sola “determinabilità oggettiva” e non anche al requisito della “certezza”. Ma, anche su questo concetto l’elasticità ministeriale si è ben esercitata. Si pensi alle risoluzioni che hanno riconosciuto competente in un esercizio i costi e specularmente i ricavi sanciti in sentenze depositate entro il termine di chiusura dell’esercizio dall’organo giudicante, ma non passate in giudicato, rimandando alla sentenza definitiva i valori correttivi da rilevare come sopravvenienze. Si possono citare: la Risoluzione n. 28161/98 della Direzione Regionale delle Entrate per la Lombardia, conforme al principio affermato nella Risoluzione ministeriale 27 aprile 1991, n. 9/174 (O), che chiude con la seguente affermazione: « È appena il caso di rilevare che, qualora il giudizio, pendente presso la Corte di cassazione, si dovesse concludere in senso in tutto o in parte contrario a quello cui è pervenuta la Corte d’appello, si configurerà una sopravvenienza attiva imponibile nell’esercizio di competenza.» Di contro si leggono in dottrina opinioni che affermano la maturazione della competenza solo con il passaggio in giudicato delle sentenza, anche se si deve rilevare un avvicinamento, per prudenza, alle tesi ministeriali, seppur con la motivazione che vi sono sentenze non definitive ma con efficacia immediatamente esecutiva (7).
Si comprende allora anche l’affermazione espressa da G. Nanula, La deducibilità dei costi incerti, in “il Fisco”, n. 37/90, 5890: « È questa la ragione per la quale, subordinare la deducibilità di un costo al requisito della certezza della sua esistenza, significa in sostanza attendere il suo sostenimento ed è questa in fondo la ragione per cui il detto requisito si rivela quindi di impossibile osservanza: tutte le volte in cui il Ministero voglia infatti ammettere la deducibilità di un costo non ancora sostenuto – e quindi incerto – è costretto a dare … “apparenza di certezze” ad un fatto di cui è soltanto probabile – ancorché fortemente probabile – la futura esistenza… » Si comprende, ma non è condivisibile in relazione alla certezza sull’an; basta applicare secoli di esperienza accumulata dal diritto delle obbligazioni in tema di “credito certo”, per non sentire il bisogno di ricorrere alla probabilità. Un fatto è o non è. Se, invece, si accetta che anziché “essere” sia solo “probabilmente esistente” o ancor più astrattamente “possibile”, si cambi l’art. 75 Tuir 917/1986, ma finché resta nell’attuale tenore letterale, almeno la “certezza” sia rispettata come tale.
D’altra parte la situazione attuale, non certo soddisfacente sul piano di parità ed equilibrio tra Fisco e contribuente, è agevolata dal vantaggio che il censore fiscale, arriva a cose fatte, a distanza di anni, quando non è più possibile correggere le opinabilità e sostenere un principio elastico vuol dire darne l’interpretazione più conveniente a chi ha il diritto di parlare per ultimo. Basti l’esempio dell’interpretazione ministeriale, che obbliga a dichiarare e a tassare come ricavo l’imposta sulle società, che non si sa se e quando verrà mai rimborsata pur in presenza di decreti ingiuntivi contro l’Amministrazione finanziaria. L’Amministrazione, nel dubbio che la propria tesi potesse essere non condivisa, ha prudentemente provveduto a far recepire il principio nell’art. 11 del “collegato alla Legge 448/1998 (“finanziaria” 1999).
Si deve anche osservare che in caso di accertamento induttivo si verifica – direi: necessariamente – un superamento dei principi di competenza e correlazione. Si richiama, in materia, la sentenza Corte cass. 17 gennaio 2001, n. 640.
Si deve anche osservare che il principio di correlazione consente di mettere in evidenza la sostanziale differenza tra bilancio civilistico e bilancio fiscale, differenza che consiste negli obiettivi non paralleli delle due normative e che sono destinati a divergere sempre più con l’entrata in vigore della riforma del diritto societario del D.Lgs. n. 5/2003 a partire dal 2004.
È noto che l’obiettivo del codice civile è contenuto nel secondo comma dell’art. 2423 cod. civ., che esige la redazione di un bilancio che rappresenti «…la situazione patrimoniale e finanziaria della società e il risultato economico dell’esercizio…», secondo principi di redazione dettati dal successivo art. 2423-bis. Quindi, obiettivi sono il patrimonio netto e la situazione finanziaria, nei cui confronti il risultato economico rappresenta l’elemento dinamico, secondo la definizione della ragioneria zappiana che il reddito è la variazione del capitale per effetto della gestione.
Obiettivo del Fisco è, invece, immediatamente la determinazione di un “reddito imponibile”. L’art. 52 del Tuir esige sì che la partenza sia il risultato economico civilistico, ma il punto di arrivo può essere molto diverso, né, data la diversità degli obiettivi, si può immaginare come potrebbe non esserlo.
I riferimenti di questa divergenza possono essere molti, ma i più significativi sono proprio nel principio di correlazione costi-ricavi, che il diritto tributario delle imposte dirette accentua in modo particolare. Si prendano due significativi esempi:
– ammortamenti di beni materiali. Per l’art. 2426, n. 1), cod. civ. l’ammortamento civilistico è fatto in relazione alla perdita di valore e alla residua possibilità di utilizzazione. Se durante un lungo processo di installazione si verificasse una obsolescenza, il bilancio civilistico ne dovrebbe tenere immediantamente conto. Non per l’art. 67 TUIR che condiziona la contabilizzazione dell’ammortamento del bene materiale all’entrata in funzione. Perché? Evidentemente per il principio di correlazione dei costi (ammortamento) ai ricavi (inizio del funzionamento). Si potrebbe dire che la correlazione tributaria è ristretta all’asse costi-ricavi, mentre la correlazione civilistica (se ancora di correlazione si può parlare) è tra valori di asset e patrimonio netto;
– ammortamenti generici. Per l’art. 2426, n. 5, cod. civ. non deve essere superato il limite di cinque anni. Per l’art. 74, comma 3, TUIR il limite è la «…quota imputabile a ciascun esercizio…», ma tenendo conto che, secondo il successivo comma 4, per le imprese di nuova costituzione l’inizio dell’ammortamento è «…a partire dall’esercizio
in cui sono conseguiti i primi ricavi.»
Per il diritto tributario la correlazione costi-ricavi è, almeno in questi casi, più stretta e intensa, ma anche più precisa, di quella del codice civile.
4 – Le operazioni in corso alla chiusura dell’esercizio
Gli articoli 52 e 90 del Tuir 917/1986, coerentemente con l’art. 2217 del cod. civ. determinano il “periodo di imposta”, come a dire la lunghezza del segmento temporale, al cui termine deve essere determinato il risultato economico derivante dalle operazioni compiute nello stesso e costituenti l’esercizio. Da qui nascono i problemi che abbiamo indicato, perché la chiusura coglie i processi produttivi ancora nel loro corso. La cessione dei beni non offre particolari difficoltà, poiché la loro individualità, conseguente alla loro materialità, consente riferimenti precisi, mentre la prestazione di servizi è più problematica.
Il Tuir 917/1986 ha previsto al secondo comma, lettera a), dell’art. 75 che gli eventi costituenti il sorgere dell’operazione sono: per le cessioni di beni mobili la data della consegna o spedizione, mentre per gli immobili e per le aziende vale la data della stipulazione, ovvero, se diversa e successiva, quella in cui si verifica l’effetto traslativo o costitutivo della proprietà o di altro diritto reale. Non si tratta certo di un problema banale, anche quando non vi siano processi da secare. Però le difficoltà si esauriscono con la corretta individuazione delle date “di consegna” e di “traslazione della proprietà”. Per esempio, si citano le difficoltà di individuazione della data di consegna per merci consegnate FOB partenza del tipo “franco a bordo” di merci viaggianti al 31 dicembre risolte dal Ministero delle finanze con Nota 1.10.1977, n. 9/1196, in cui ha individuato nell’imbarco il momento della consegna e, quindi, della competenza, principio confermato nella decisione della Commissione Centrale 5.12.1995, n. 4174 e del trasferimento di immobile con atto privo di autentica notarile e, quindi, non trascritto, affrontato e correttamente risolto dalla Corte di cassazione con sentenza 4 ottobre 2000, n. 13174, che in presenza di un atto con “immediata efficacia traslativa individuata con riguardo al contenuto della scrittura e al comportamento delle parti, nella regolamentazione di consegna della cosa, incombente sul venditore” avvenuti il 31.12.1991, ha riconosciuto che il possesso giuridico ed il materiale godimento dell’immobile s’intendevano trasferiti a decorrere dalla data del 31/12/1991. La Cassazione ha così confermato che non è la forma dell’atto, notarile o no, che conta, ma è la idoneità dell’atto stesso a trasferire e ciò in linea con l’art. 1350 cod. civ. che per gli immobili esige la “scrittura”, non esclusivamente l’atto pubblico o la scrittura privata autenticata.
Più difficoltosa la soluzione dei problemi riferiti alle prestazioni di servizi, anche se:
– il legislatore tributario ha dato all’art. 75 il riferimento della “data in cui le prestazioni sono ultimate, ovvero, per quelle dipendenti da contratti di locazione, mutuo, assicurazione e altri contratti da cui derivano corrispettivi periodici, alla data di maturazione dei corrispettivi”;
– e il Ministero ha riconosciuto nella Risoluzione 22 ottobre 1981 n. 9/2940 che sono i costi a seguire i ricavi.
Abbiamo così gli strumenti necessari per comprendere i casi concreti esaminati nel capitolo successivo.
5 – Casi concreti: certificazioni, sponsorizzazioni, chiusura delle discariche, opere edilizie, contratti di leasing e interessi passivi.
I casi che seguono, proprio per la loro diversità, possono rappresentare esempi di riferimento per altri simili oltre che costituire conferme degli enunciati sopra espressi.
5.1 – Certificazioni
Per adeguamento a norme internazionali o per esigenze di conquista e difesa di quote di mercato, specie all’export, si sono diffuse nell’ultimo decennio varie forme di certificazione-revisione di bilanci e di certificazioni della qualità tipo ISO. I problemi posti non sono di facile soluzione. La certificazione di bilanci annuali, anche quando è approntata in parte in corso d’anno, si verifica a posteriori cioè nel quadrimestre successivo alla chiusura dell’esercizio e si pone allora il problema di quale sia la competenza del relativo costo, peraltro precontrattato e quindi certo nell’esistenza e oggettivamente determinabile a sensi dell’art. 75, comma 1, Tuir 917/1986, se dell’esercizio a cui si riferisce la certificazione o se in quello in cui l’attestazione viene rilasciata. La dottrina è propensa a riconoscere la competenza del costo a carico dell’esercizio a cui si riferisce il bilancio, quando, come avviene generalmente, esiste certezza e determinabilità oggettiva, ma il Ministero ha dato, nella Circolare 7 luglio 1983, n. 30/9/944 una interpretazione restrittiva della locuzione “ultimate” del comma 2, lettera b) dell’art. 75, ignorando che il comma 1 dell’art. 75 è norma generale, mentre il secondo è norma particolare esecutiva, come si evince dalla locuzione “ai fini della determinazione dell’esercizio di competenza…” (8). Probabilmente il Ministero ha ritenuto che il bilancio non è assimilabile ai ricavi e, pertanto, non può sviluppare alcuna vis attractiva , per cui il costo della certificazione del bilancio x viene riconosciuto di competenza dell’esercizio x+1, perché è in questo che viene rilasciata la attestazione di certificazione a lavoro ultimato.
La certificazione della qualità può porre, invece, il problema della ripartizione nel tempo del costo complessivo. Si può cioè verificare l’intersezione dell’art. 74, comma 3, Tuir 917/1986 con l’art. 75. Se la certificazione è in corso a fine anno, la competenza è determinata dalla ultimazione della prestazione. Ciò posto si deve però verificare se il costo sia o no ”a fecondità ripetuta”. Vi sono certificazioni di processo che esigono accertamenti e conferme, per esempio ogni tre anni, come a dire che il costo vale per i tre anni successivi, salvo variazioni anticipate. In questo caso, dopo aver stabilito l’esercizio della competenza iniziale, si dovrà procedere alla ripartizione in quote di un terzo per ognuno degli esercizi di validità della attestazione.
5.2 – Sponsorizzazioni
Si ha rapporto di sponsorizzazione quando una parte (sponsorizzato) rende a un committente (sponsor) prestazioni di servizi idonee ad abbinare a sue attività (cioè dello sponsorizzato) la denominazione o un marchio o un logo o ad altro segno distintivo dell’azienda o di prodotti del committente stesso. Il fenomeno è molto diffuso nelle attività sportive e artistiche e genera il problema di qualificare il costo deducibile per inerenza oppure per correlazione. La distinzione influisce sulla misura della deducibilità del costo, prima ancora di stabilirne il momento. Infatti, se sponsorizzata è la denominazione o la ragione sociale o la ditta si avrà, in genere, una spesa di rappresentanza deducibile per solo un terzo e in cinque esercizi. Se, invece, la sponsorizzazione è riferita a un prodotto si ha una spesa di pubblicità con la deducibilità intera a sensi del comma 1 dell’art. 74 Tuir 917/1986. Vi sono poi molti casi concreti intermedi, fra cui denominazione, ragione sociale o ditta che identificano anche il prodotto dell’azienda come nel caso di imprese monoprodotto. In questo caso si dovrebbe parlare di sponsorizzazione come tipo di pubblicità. Dire quindi che un costo di sponsorizzazione è deducibile per “inerenza” è generico e non risolve i problemi, perché in mancanza di inerenza nessun costo sarebbe deducibile nemmeno in parte. Bisogna verificare la natura del contratto, avvertimento che riguarda comunque tutti i rapporti che generano costi e ricavi. Il Ministero, nella Risoluzione 8 settembre 2000, n. 137/E ha fatto il punto della questione. Innanzi tutto ha affermato che: « La pubblicità legata unicamente al
prodotto ha perso i connotati tipici che l’avevano da sempre caratterizzata nel senso cioè di dover essere razionale e convincere che un prodotto è buono e conveniente. Nuovo modo di concepire la pubblicità del “sociale” piuttosto che una pubblicità del “prodotto” può essere ravvisato in quello che nella terminologia anglosassone viene definito cause related marketing. Termine con il quale si intende una nuova tecnica pubblicitaria – rivolta ai consumatori-cittadini più che ai consumatori clienti…» A me pare, invece, il contrario, perché il consumatore è colpito prima di tutto dal prodotto, che è ciò di cui sente il bisogno e, perciò, ho il sospetto che il Ministero abbia fatto sfoggio di cultura à la page più per giustificare la scelta di confermare la propria opinione che per dettare un criterio valido per distinguere le spese di pubblicità, interamente deducibili, da quelle di rappresentanza, deducibili per un quindicesimo per cinque anni. Il Ministero propone di: «…considerare di pubblicità le spese che prevedono a carico dell’altra parte impegni a fare o permettere oppure obbligazioni derivanti da accordi contrattuali anche nuovi e complessi…», mentre non sarebbe valida l’opinione della prassi amministrativa e della giurisprudenza che sono spese: «…di rappresentanza quelle sostenute dall’impresa per offrire al pubblico un’immagine positiva di se stessa e della propria attività, in termini di floridezza, efficienza, ecc. Sarebbero invece da considerarsi di pubblicità quelle spese attraverso le quali si porta a conoscenza della generalità dei consumatori l’offerta del prodotto, stimolando la formazione e l’intensificazione della domanda.» Se si seguisse il Ministero nella sua tesi non esisterebbero più spese di pubblicità, perché una pubblicità è proprio il contrario del do ut des contrattuale. La pubblicità è solo rischio, altro che contratto sinallagmatico oggettivo! Il sinallagma è solo nella prestazione dello sponsorizzato, ma l’effetto è del tutto aleatorio. Questa constatazione è sufficiente per attribuire all’interpretazione ministeriale l’etichetta di parzialità e di infondatezza logica. All’Amministrazione finanziaria interessa ormai solo di rendere le spese indeducibili o deducibili in parte e non resta che suggerire all’impresa che, per esempio, intende sponsorizzare un concerto in occasione della presentazione di un proprio prodotto di dare i biglietti di ingresso gratuito solo a chi sottoscrive il contratto di acquisto. Il risultato sarà di vedere un pubblico formato solo dai dirigenti dell’impresa, ma il principio ministeriale sarà salvo! Ma di avviso diverso da quello espresso dal Ministero nella citata Risol. 137/E del 2000 sembra la Corte di cassazione in sentenza 19.5.2000, n. 6502.
Risolto, in modo più o meno certo, il problema della deducibilità, vi sono i successivi connessi più direttamente con l’art. 75, sia del primo comma e sia del secondo comma, Tuir 917/1986. Soprattutto l’individuazione della “ultimazione” della prestazione pone problemi in relazione alla organicità o no delle prestazioni. Si pensi ai rapporti di sponsorizzazione rientranti nei contratti di durata in cui la prestazione non è singola, ma è a prestazioni continuate, come nel caso di un rapporto con una squadra di calcio o una scuderia automobilistica, che prevede una serie stagionale di incontri o di corse, in molti casi con inizio in un esercizio (primo incontro o prima gara) e proseguimento nel successivo. Considerando che alla fattispecie può essere applicato il principio di “maturazione”, la Commissione per le “Norme tributarie di comportamento dell’Associazione dei Dottori commercialisti di Milano” ha emanato la Norma n. 143, che prevede l’applicazione del principio pro-rata. Invece, per i contratti che riguardano una singola prestazione, si renderà applicabile la soluzione generale.
5.3 – Chiusura delle discariche
Le discariche di rifiuti costituiscono un esempio ormai classico di ricavi concentrati nei pochi esercizi di attività, cioè di riempimento del bacino, e di costi distribuiti per molti anni successivi (si supera ormai i 25) per la manutenzione e la salvaguardia ambientale detti anche “costi postumi di chiusura”. Non collegare le lunghe maturazioni temporali dei costi a quelle più brevi dei ricavi significherebbe in pratica rendere i costi indeducibili, poiché troverebbero manifestazioni in esercizi destinati alla chiusura in perdita senza il correttivo dell’anticipazione dei costi. Il Ministero, dopo un’attesa durata parecchi anni, ha emanato la Risoluzione 2.6.1998, n. 52/E, con cui ha riconosciuto la correttezza della anticipazione dei “costi postumi” agli esercizi di produzione dei ricavi (9).
5.4 – Opere edilizie: le norme ADC 135 e 136
La Commissione per le “Norme tributarie di comportamento dell’Associazione dei Dottori commercialisti di Milano” ha affrontato i problemi della competenza e della correlazione nelle norme 135 e 136, che hanno in comune la premessa del richiamo alla Risoluzione 22 ottobre 1981, n. 9/2940 (10).
Recita la “Norma 135”:
A. L’alienazione di unità immobiliari costituisce ricavo dell’esercizio nel quale è intervenuto l’atto di trasferimento della proprietà dei beni, ancorché non tutti i costi attribuibili al bene trasferito siano stati sostenuti al termine dell’esercizio in cui è intervenuta la cessione.
B. Nell’esercizio di conseguimento dei ricavi devono essere accertati i costi, ancorché non sostenuti, per la quota attribuibile al bene la cui alienazione ha dato origine al ricavo. C. I costi accertati, a fronte di ricavi conseguiti, sono rilevanti ai fini della determinazione del reddito imponibile.
In concreto la Commissione ha considerato il caso della vendita di un immobile non tanto in corso di costruzione, per il che dovrebbe essere data adeguata descrizione nell’atto di trasferimento come bene immobile non ancora idoneo all’uso per cui è stato progettato, quanto di cessione con accollo da parte del venditore, in genere un’impresa immobiliare, di opere di finitura o di completamento, non incidenti sull’abitabilità o l‘agibilità, che il cedente assume l’obbligo di eseguire o di far eseguire. La competenza del ricavo nell’esercizio x, in cui avviene il trasferimento, anticiperebbe anche i costi ancora da sostenere per dette opere, in applicazione del principio che “sono i costi che devono seguire i ricavi”. La Commissione ha posto attenzione ai requisiti di “certezza” dell’onere e di “determinabilità oggettiva”, ipotizzando che il primo sia formalmente assunto come obbligazione nell’atto di trasferimento e il secondo « da eventuali contratti già stipulati con terzi fornitori o da una “obiettiva” analisi dei costi da sostenere. » (11)
Recita la “Norma 136”:
L’accertamento dei costi per avanzamento di lavori subappaltati di imprese costruttrici è fiscalmente riconosciuto nell’esercizio di competenza, a fronte di ricavi o di rimanenze finali riferibili al contratto di appalto principale.
La Commissione ha affrontato il caso delle imprese appaltatrici di opere, considerate dal diritto tributario “prestazioni di servizi”, che in fine esercizio debbono considerare tra le rimanenze gli stati di avanzamento dei lavori appaltati, seguendo le regole stabilite dall’art. 59 se si tratta di contratti a durata annuale o dall’art. 60 se si tratta di contratti di durata ultrannuale. La vis attractiva esercitata dai ricavi sui costi comporta, nella fattispecie, che per il principio affermato nella citata Nota 9/2940 del 1981 oltre che per simmetria o specularità o razionalità tributaria, siano contabilizzati nell’esercizio stesso anche i costi del subappalto con lo stesso avanzamento.
5.5 – Contratti di leasing
La caratteristica del contratto di leasing è principalmente la composizione del godimento del bene e, condizionatamente alla manifestazione di volontà dell’utilizzatore, l’acqui
sizione della proprietà. Nella pratica applicazione dell’art. 75 Tuir 917/1986 si è posto il problema dell’esercizio di competenza per il trasferimento e, come diretta conseguenza, il momento in cui si manifestano per la società concedente plusvalenze o minusvalenze scaturenti dal trasferimento. La Corte di cass., con sentenza 6 novembre 2002, n. 15524, ha riconosciuto che l’esercizio di competenza è quello in cui si realizza l’effettiva cessione del bene.
5.6 – Interessi passivi
La Corte di cass. ha affrontato il tema della inerenza degli interessi passivi e con sentenza 21 novembre 2002, n. 14702 ha affermato che ai sensi dell’art. 75, comma 5, Tuir 917/1986 detti interessi seguono un regime differenziato e il diritto alla deducibilità deve essere riconosciuto senza bisogno di alcun preventivo esame di inerenza, anche se nei limiti della disciplina prevista dall’art. 65.
6 – Conclusioni
Le conclusioni non sono confortanti. Si sono messi in rilievo alcuni aspetti, che non depongono certo per la tranquillità nell’interpretazione e nell’applicazione delle norme, soprattutto per gli atteggiamenti non consolidati di giurisprudenza e di applicazione dell’Amministrazione finanziaria. In particolare si nota:
– inadeguatezza nelle definizioni dei concetti, sia nell’economia di azienda e sia nel rinvio formale che ne fa la norma tributaria;
– confusioni frequenti tra i concetti di inerenza e di correlazione da parte dell’interprete tributario;
– confusioni tra il concetto di competenza e di determinazione temporale;
– distacco delle applicazioni tributarie rispetto a quelle del bilancio civilistico, seppur sia inevitabile riconoscere che i requisiti di certezza delle soluzioni del Fisco possano non coincidere con quelli del bilancio. D’altra parte, a meno di estendere, pericolosamente e costosamente, certificazioni di bilanci o di risultati economici a tutte le imprese, si deve ammettere che la norma tributaria non può dichiarare sic et simpliciter che il bilancio civilistico abbia una validità automatica fiscale,
– incoerenze nelle applicazioni concrete dell’Amministrazione finanziaria, più volta a conservare illusoriamente il gettito che a lasciare che i principi liberino la loro forza, generatrice di certezza del diritto e di maggior gettito nel lungo termine.


Note bibliografiche
(1) Sulla contrapposizione costi-ricavi e sulla distinzione rispetto al momento del pagamento si soffermano G. Tinelli, Il principio di competenza nella determinazione del reddito d’impresa, in “Bollettino Tributario”, 1980, pag. 1545 e R. Lunelli, Nuovi orientamenti sul principio di competenza nella determinazione del reddito d’impresa, ivi, 1982, pag. 1174.
(2) “Amministrazione” è qui intesa in senso zappiano, comprensiva, cioè, di “gestione”, “organizzazione” e “rilevazione”.
(3) Il concetto di tâtonnement è la realtà dell’impresa. Non esistono certezze in alcuna scelta imprenditoriale. Ogni azione è un rischio. Anche l’homo oeconomicus faber è in realtà un viator, nonostante presunzioni e “superomismo”, spesso avanzati dall’imprenditore per nascondere incertezze, paure e debolezze. Una specie di autosuggestione, senza la quale gli mancherebbe il coraggio di scegliere il rischio. Solo così l’imprenditore riesce a essere un uomo, che si fa carico consapevole di scelte difficili e che per paura tende a razionalizzare. L’autosuggestione serve appunto a superare la paura.
(4) Il Ministero delle finanze dimostra, almeno nelle circolari (per esempio: 7.7.1983, n. 30/9944) e nelle risoluzioni (per esempio: 22.10.1981, n. 9/2940) di avere ben chiara la nozione di “costo” e di “spesa” e di ritenere che il primo riguarda l’aspetto economico dell’acquisizione di un fattore della produzione. Però nella scrittura del Tuir 917/1986 se ne è dimenticato e usa il termine “spesa” per i componenti negativi del reddito, mentre riferisce il “costo” a voci di stato patrimoniale. Il fatto, in sé, non avrebbe rilevanza, se non si volessero derivare interpretazioni di carattere sostanziale di singole norme, che impiegano l’uno o l’altro dei termini, attribuendo al legislatore intenzionalità, che, invece, sono solo improprietà terminologiche. In queste note si farà invece l’uso ritenuto corretto dalla ragioneria. Cfr. Robert. N. Anthony, Contabilità e bilancio, F. Angeli, Milano, 1986, pag. 204: « …l’inglese ha tre termini (expense, expenditure, cost) contro i due termini italiani: costo e spesa. Nella terminologia contabile italiana costo è l’elemento negativo del reddito (quindi anche l’ammortamento) poco importa che la relativa spesa sia stata sostenuta nel corrente esercizio o in un esercizio precedente o successivo; spesa è una variazione numeraria passiva, cioè una posta/passiva di un conto numerario (avere di c/cassa o avere di un c/fornitori): Quindi l’acquisizione di un bene di produzione (es. una macchina) dà luogo a una spesa nel momento in cui perfeziona l’acquisto e dà luogo a tante voci di costo quanti sono gli anni durante i quali il bene viene ammortizzato. » Si veda anche in “Bollettino Tributario”, 1998, n. 6, pag. 548, il commento redazionale alla sentenza Comm. Trib. Prov. Novara, 24 aprile 1997, n. 62.
(5) Le modificazioni all’art. 2427, n. 14, cod. civ., introdotte dal D.Lgs. 5/2003, che secondo alcuni commentatori determinano una disgiunzione radicale tra bilancio civilistico e conto fiscale, non sono sufficienti a instaurare un “doppio binario”, finché resterà l’art. 52 TUIR 917/1986 nella versione attuale.
(6) Scrive testualmente il Ministero: «…Si tratta, cioè, di stabilire se detti costi abbiano le caratteristiche di competenza quanto al tempo, della certezza quanto alla esistenza e che siano oggettivamente determinabili nel loro ammontare. In proposito si rileva che il carattere della competenza scaturisce dalla considerazione che nel caso in cui manchino i ricavi non può parlarsi di produzione del reddito, dal che deriva che sono i costi che devono seguire i ricavi. Di conseguenza, una volta stabilito l’esercizio di competenza dei ricavi, divengono automaticamente deducibili in quello stesso esercizio tutti i costi relativi… ». Su questa Nota è opportuno osservare che la competenza è intesa in senso temporale, come si evince dalla locuzione “competenza quanto al tempo” e, inoltre, che i requisiti della certezza, della esistenza e della determinabilità oggettiva non sono condizioni della competenza, ma principi autonomi.
(7) Si veda risposta a quesito in “Bollettino Tributario”, 2000, n. 19, pag. 1438.
(8) Si veda: F. Artini, Competenza del costo della revisione contabile, in “Azienda & Fisco”, n. 13/1993, pag. 611.
(9) P. Bonazza, Correlazione temporale di costi e ricavi. Il caso della discarica di rifiuti solidi urbani, in “Rivista dei dottori commercialisti”, 1994, pag. 797 e Ancora sulla correlazione costi-ricavi della discarica di rifiuti solidi urbani, ivi 1999, pag. 581.
(10) La Commissione ha affrontato il tema anche in altre “Norme”, di cui si ricordano, in particolare le nn. 131 e 132 su competenza e correlazione delle provvigioni agli agenti di commercio.
(11) Si veda per confronto la sentenza della Commissione trib. Prov. di Milano, 14 febbraio 2000, n. 35, pubblicata in “Bollettino Tributario”, 2000, n. 17, pag. 1262.
Pietro Bonazza