Dante: un amore sublimato

 

Dante è un poliedro con facce talmente numerose da consentire interpretazioni inesauribili, dando ragione a chi sostiene che nella Divina Commedia c’è tutto. Per me, è più importante che ci sia Dante!

Osservo che Dante, uomo probo, pur essendo il principale personaggio della Divina Commedia, potrebbe essersi nascosto per discrezione, onestà intellettuale, pudore, soprattutto sul suo sentimento verso Beatrice.

Partiamo dall’inizio:

Dante a nove anni, quando incontrò Beatrice Portinari per la prima volta, era un bambino precoce, già provato da lutti familiari, che lo avevano reso orfano in tenera età.

A diciotto anni, giovane con capacità poetiche innate, vede Beatrice sul Ponte di Santa Trinita. Lei lo ripaga a distanza con un sorriso, che è all’origine dell’illusione che lo porterà di lì a poco alle espressioni delicate, ma non di maniera, della Vita Nuova, raccolta di sonetti dominati dall’amore per la giovane donna. Entrambi sono, per motivi diversi, succubi delle consuetudini sociali del tempo, che considerano i figli oggetti di scambi contrattuali matrimoniali, che prevedono la scelta del coniuge già in tenera età per iniziativa del padre o, nel caso di Dante, da chi ne assume la funzione.

Nel 1290 Beatrice muore e Dante, che pure non aveva avuto contatti fisici con l’innamorata, diremmo: solo “a distanza”, è afflitto da inconsolabile dolore.

Tra il 1306-1308 inizia la composizione dei primi canti della Commedia (“divina” solo dal Boccaccio in poi) e, per attendere alla stesura a tempo pieno cioè per una quindicina d’anni, abbandona il Convivio a un terzo del progetto. Gli urge, tormentandolo, il poema che era già maturato in lui nella sua architettura. La tecnica poetica era ormai uno strumento affinato, padroneggiato, collaudato dai sonetti della Vita Nuova e la teologia, la filosofia e la psicologia mature. La Commedia gli era cresciuta dentro e attendeva solo di esplodere come un Big Bang. Si potrebbe persino dire che il poema gli era congenito.

Considero, ai fini di questa nota, tre punti fondamentali:

a) l’inizio del poema si ritiene sia all’incirca del 1307, ma la concezione è probabilmente anteriore. Facciamo l’ipotesi, che non condivido, che tale sia quello il tempo dell’inizio. Dante ha già una quarantina d’anni; la moglie Gemma Donati, rimasta a Firenze dopo la vile condanna dei fiorentini, gli ha già dato tre figli, forse quattro. Beatrice è morta da circa diciassette anni, ma Dante, uomo noto per la prodigiosa memoria, visionario con tendenza all’epilessia, narcolettico per sua stessa ammissione, non l’ha dimenticata, perché continua a martellargli il cervello in modo incancellabile; l’amore non è stato superato, ma metabolizzato in una forma che non confligge con quello maritale. D’altra parte, l’onestà e la coerenza di Dante non possono essere messe in dubbio;

b) nel Canto V dell’Inferno, tra i più celebri, Dante rivela il suo atteggiamento davanti all’amore umano tra Paolo e Francesca;

c) Beatrice appare come guida nel percorso ultraterreno già nel Canto II dell’Inferno, delegando la funzione a Virgilio per riprenderla in prima persona al passaggio dal Purgatorio al Paradiso. Infatti, Beatrice riappare nel XXX Canto del Purgatorio, come si legge nei versi 73-76:

 

«Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice.


Come degnasti d’accedere al monte?
non sapei tu che qui è l’uom felice?».

Li occhi mi cadder giù nel chiaro fonte;

 

Questa lunga premessa è introduttiva alla domanda: che amore è quello di Dante per Beatrice e come può convivere con l’amore per la moglie, che non fu e mai si sentì tradita dal marito? Eppure non dobbiamo pensare che Gemma Donati fosse una donnetta di nessun conto; era solo una moglie e una madre di spirito pratico, preoccupata dalla scarsità delle risorse economiche, a cui non sapeva provvedere il marito, povero e spesso indebitato, sognatore e vagabondo tra una biblioteca e un protettore! Eppure in famiglia tutti erano a conoscenza del suo rapporto ideale per la figlia di Folco Portinari e non nutrivano invidia o riprovazione, come dimostra il fatto che la figlia Antonia al momento di pronunciare i voti monacali, quasi certamente dopo il 1315, assunse il nome di suor Beatrice. A quella data i figli maschi, coinvolti nell’esilio, erano già a Ravenna con la madre Gemma Donati, che molto probabilmente raggiunse il Poeta esiliato dopo aver sistemato affari e questioni ereditarie. La famiglia si era ricomposta, secondo lo studioso Marco Santagata nel testo “Dante”, pag. 308, che condivido e di cui riporto il passo:

«È sicuro, invece, che Dante visse a Ravenna circondato dai figli…Gemma compresa (ma non è neppure da escludere che il ricongiungimento familiare fosse avvenuto già nell’ultimo periodo del soggiorno in Toscana o, subito dopo, a Verona. A ricomporre la famiglia può avere aiutato il fatto che a Dante era stata la disponibilità di una casa». Non considero, invece, realistico il giudizio di Giovanni Boccaccio sulla figura di Gemma Donati, che nel trattatello su Dante mette parecchio di suo. D’altra parte non era nel carattere di Dante e nella sua consapevolezza di non aver dato adeguato sostegno economico alla famiglia considerare senza riconoscenza la donna che lo aveva aiutato con umiltà e gli aveva dato almeno tre figli e che non poteva non conoscere la crescente grandezza del difficile marito, ormai nota fuori Firenze e anche dentro, nonostante la maligna pervicacia del partito al potere. La famiglia non considerava Beatrice Portinari un terzo incomodo, né prima né dopo la morte di lei.

Ma, allora, chi era per Dante la donna andata sposa a Simone de’ Bardi, uomo rozzo, nonostante le cariche di podestà in città non lontane da Firenze. È probabile che nemmeno presenziasse ai funerali della moglie. Beatrice. Lei: metafora, allegoria per rappresentare la fede? Non lo credo, se penso alla tenerezza del Poeta, manifestata nell’incontro con Francesca e Paolo, il cui amore, seppur colpevole, varca i confini della condanna infernale e desta più che una simpatia, quasi un ineffabile sentimento di comprensione, ma non di giustificazione, perché l’imprescindibile dovere morale e teologico, che condanna la lussuria, prevale su ogni pur comprensibile, ma irredimibile umana debolezza. L’amore di Francesca per Paolo è parametro per valutare la diversità dell’amore di Dante per Beatrice e il contrasto è talmente doloroso che a chiudere il Canto V, lo spirito del poeta, davanti al dramma dei due amanti, non regge, come si legge nei versi finali 138-141, perché la lotta tra il bene e il male, lascia il bene vincitore, ma a costo di una insopportabile sofferenza:

«Mentre che l’uno spirto questo disse,

 

l’altro piangëa; sì che di pietade

io venni men così com’io morisse.

E caddi come corpo morto cade.

 

Il richiamo a Paolo e Francesca è la spiegazione della mia incredulità che Beatrice sia solo un’immagine metaforica, perché rivela, invece, la poliforme capacità affettiva di Dante, poeta sì, ma al contempo uomo capace di passioni, nel senso teologico del termine latino passio, durature e svincolate persino dalla morte, perché redente dalla sofferenza.

Non si deve mai dimenticare che Dante è un visionario, che ha ricreato una Beatrice diversa da quella reale, ma per lui ancor più reale e umanizzata. Beatrice non è una finzione poetica, non è una metafora, non un simbolo, non un’allegoria come è stato sostenuto e si sostiene da pur autorevoli dantisti, è una donna vera, anche se vera solo per il suo Poeta. Quando Dante ne fa la figura dominante del suo poema, non è diversa dalla Beatrice incontrata sul ponte di Santa Trinita, perché anche allora, Dante ne costruì una realtà personale diversa dalla realtà effettiva, ma per lui, il visionario, il sognatore, non meno vera di quella che camminava sul ponte. Ma dopo di allora? La morte aveva cancellato Beatrice dalla vita, ma non la Beatrice rigenerata da Dante, che resiste anche nella Commedia e che potremmo facilmente arguire anche nell’aldilà come si può dedurre dalla intuizione teologica, originalmente dantesca, nei versi 61-66 del Canto XIV del Paradiso

Tanto mi parver sùbiti e accorti
e l’uno e l’altro coro a dicer «Amme!»,
che ben mostrar disio d’i corpi morti:

forse non pur per lor, ma per le mamme,
per li padri e per li altri che fuor cari
anzi che fosser sempiterne fiamme
.

Per Dante tra i suoi “cari” ci sarebbe stata senz’altro Beatrice, al cui fianco avrebbe passeggiato nei sentieri paradisiaci. Ci credeva, se no, perché scrivere il divino poema, in cui il visionario fonde teologia e realtà?

E veniamo al punto. Dobbiamo ancor rispondere alla domanda: che amore fu quello di Dante per Beatrice, che riusciva a convivere con il resto del mondo anche familiare e assurgere ai cieli rarefatti della Commedia? La capacità visionaria di Dante, proiettata a livelli ultramondani, fece del sentimento verso Beatrice un fenomeno di “sublimazione dell’amore”, sentimento ben diverso dall’amore platonico, che solo a un tal Poeta, poteva riuscire. Per questo si può sostenere che non c’è contrasto, non concorrenza tra l’amore umano di Dante per Gemma Donati e quello sublimato per Beatrice, la cui recondita natura deve essere cercata non solo nel poema, ma nella personalità di Dante, connotata da una onestà tale da nascondere nel poema stesso la vera natura di un sentimento, che può provare solo uno spirito eletto. Non mi curo di svolgere una ricerca erudita su versi e passaggi del poema, che possono avvalorare la mia ipotesi. È nella sua natura umana che deve essere intuita la vera essenza del suo sentire.

Nel triangolo Gemma, Francesca e Beatrice mi sembra che Dante abbia disegnato una “teologia dell’amore”, che è comprensibile solo a spiriti eletti, che per circostanze personali e caratteristiche innate, sanno o devono vivere analoga esperienza, anche se, diversamente da Dante, non sono in grado di nasconderla dietro il velo di una sublime e inattingibile poesia.