Filippo il Macedone pagava due servi che gli ricordassero ogni poco che il re era mortale. I romani, seri e pragmatici, tenevano le oche in Campidoglio, mai in sciopero, per evitare sorprese. Gli economisti non hanno tanta modestia, anche perché il re è poco saggio e si compiace delle lodi. Così quando si preparano le crisi i servi adulano il re e poi, quando diventano realtà, fanno piovere consigli apparentemente gratuiti per uscirne. È quel che accade di questi tempi soprattutto negli Stati Uniti, dove profeti del giorno dopo, ma silenti il giorno prima, impartiscono lezioni all’umanità. La stampa rosa europea riprende le sentenze delle sibille americane, ma non ha nemmeno la cura di preavvertire che, ammesso siano valide per agli americani, possono anche non valere per tutte o alcune delle economie del resto del mondo. Così il danno è doppio e vien voglia di commentare: se non sapete distinguere il prete dal sagrista non fate nemmeno i campanari. L’equivoco è assai più grave del silenzio. Questa premessa ci porta a ricordare che, nonostante colpe, errori bellici, ricatti impliciti e rendite monetarie di posizione, gli Stati Uniti restano la vera locomotiva dell’economia mondiale. I loro errori ricadono anche sul resto del mondo, ma le loro riprese, la velocità di marcia e i freni di arresto sono il motore che fa girare anche le altre economie.  Che fine hanno fatto le esplosioni del Giappone e della Germania di alcuni anni fa? Come si spiega la corsa della Cina? Se il cavallo americano non beve e non tira, il resto si ferma. Le avversioni e i piagnistei, a parole, degli europei sono persino patetici. L’Europa è solo una unione monetaria tra paesi che continuano a firmare trattati senza fare un passo avanti verso l’unificazione politica. A Bruxelles imbarcano tutti, salvo poi temere di andare a fondo, quando Grecia,  Spagna e Portogallo sono senza ossigeno. Possiamo immaginare che se negli States, Oregon e Montana fossero in crisi, il resto andrebbe in ginocchio? Non cancellerebbero certo due stelle della bandiera.

Tra i tanti consigli che circolano in America, prendiamone tre e ipotizziamo il collegamento con la realtà italiana:

–          nuove regole contro la speculazione finanziaria. In America continuano a parlarne, ma non se ne fa e non se ne farà nulla. Che può fare la Ue e ancor meno l’Italia? Nulla, perché l’incubatoio delle crisi e la culla stanno a Wall Street e comunque con l’organizzazione internazionale delle telecomunicazioni, la speculazione può continuare e continua da qualsiasi angolo del globo. Le prediche di Draghi, come quelle di Einaudi, diventano “inutili”;

–          la lotta all’inflazione, che riprenderà quota proprio come effetto della ripresa impaurisce il resto del mondo, meno gli States per almeno due motivi: il dollaro continua a godere dei vantaggi del signoraggio: se resta debole va bene per l’export americano, almeno fino a una certa misura; se si riprende va bene per il flusso dei capitali dall’estero. Nel bene e nel male sono sempre loro che comandano: in economia, in politica, nella scelta delle guerre e dei propri nemici che, guarda caso, sono sempre legati al petrolio. L’Italia potrebbe forse fare qualcosa autonomamente?

–          il contenimento del debito pubblico. Gli States si preoccupano a parole, ma sanno che il resto del mondo dovrà sostenerli. L’Italia, invece, deve fare qualcosa, pena la fine di Grecia e altri stati europei. Il valore del debito pubblico italiano è oltre il limite controllabile. Delle due l’una: o si tagliano le spese o si aumentano le imposte. E a questo punto si spiega la resistenza a oltranza di Tremonti, a costo di tagliare la faccia al suo premier, che ha fatto promesse inattuali. Sul punto si scontrano due teorie: a) abbassare le imposte per dare fiato alla ripresa, però, come si è detto, la ripresa non dipende solo da noi, ma da ciò che avviene nel resto del mondo. I sostenitori pensano che aumenterebbe la domanda interna, quindi i consumi e per questo il Tremonti pensa che, semmai, si potrebbe abbassare l’imposta diretta e aumentare l’Iva, che grava proprio sui consumi; ma con una aliquota già al 20% il salto in alto dei prezzi ridurrebbe i consumi; b) tagliare le spese pubbliche; ma se non riusciamo nemmeno a sopprimere le province, che era una promessa elettorale delle ultime elezioni politiche! Il governo deve capire che il vero coraggio politico è nella compressione immediata del disavanzo di parte corrente del bilancio pubblico.

Noi siamo solo vagoni, speriamo nella locomotiva. Forse, da noi ci vorrebbe un’altra politica, anzi altri politici, che non sono sulla scena del teatrino italiano… dell’arte.